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Miti e leggende di mare
Miti e Leggende di mare
 

I Guardiani degli Abissi marini

Gli antichi popoli Mediterranei credevano che misteriosi guardiani dell’abisso avessero il potere di cambiare i giorni fasti in nefasti e di causare eclissi; il più temuto di questi esseri era Leviathan, il Serpente del caos primordiale che, avvolgendo nelle sue spire il Sole e la Luna, avrebbe potuto divorarli.
Persino il popolo ebraico, che non aveva tradizioni marinare, era terrorizzato da quel grande mostro.
E così era per Beemot, un altro mostro marino dalle sembianze di gigantesco ippopotamo.
Nel Talmud si legge di un pesce, rimasto incredibilmente spiaggiato, così enorme che se ne cibarono i cittadini di sessanta città, e i suoi avanzi bastarono a conservare cibo per altre sessanta città. Soltanto un occhio del gigantesco mostro, colmò trecento misure d'olio...
Un altro mostro del Mediterraneo è Medusa, di cui ci parla Omero nell'Odissea. Medusa è una delle tre Gorgoni, figlie di Phorcys e di Ceto, divinità marine. Esiodo ci tramanda che Medusa, un tempo meraviglia degli abissi marini per la sua bellezza, fece innamorare Poseidone, e che dalla loro unione nacque Pegaso, il cavallo alato. Ma ciò fece salire su tutte le furie Athena, eterna rivale di Poseidone, che si vendicò trasformando Medusa in un mostro orribile, con una corona di serpi al posto dei capelli.
Tutti coloro che guardavano in faccia Medusa, rimanevano immediatamente pietrificati.


I MITI E LE LEGGENDE DI SICILIA
Le leggende ed i miti profani

La storia di Colapesce
Cola o Nicola è di Messina ed è figlio di un pescatore di Punta Faro. Cola ha la grande passione per il mare. Amante anche dei pesci, ributta in mare tutti quelli che il padre pesca in modo da permettere loro di vivere. Maledetto dalla madre esasperata dal suo comportamento, Cola si trasforma in pesce. Il ragazzo, che cambia il suo nome in Colapesce, vive sempre di più in mare e le rare volte che ritorna in terra racconta le meraviglie che vede. Diventa un bravo informatore per i marinai che gli chiedono notizie per evitare le burrasche ed anche un buon corriere visto che riesce a nuotare molto bene. Fu nominato palombaro dal capitano di Messina. La sua fama aumenta di giorno in giorno ed anche il Re di Sicilia Federico II lo vuole conoscere e sperimentarne le capacità. Al loro incontro, il Re getta una coppa d’oro in mare e chiede al ragazzo di riportargliela. Al ritorno Colapesce gli racconta il paesaggio marino che ha visto ed il Re gli regala la coppa. Il Re decide di buttare in mare la sua corona ed il ragazzo impiega due giorni e due notti per trovarla. Al suo ritorno egli racconta al Re d’aver visto che la Sicilia poggia su tre colonne, una solidissima, la seconda danneggiata e la terza scricchiolante a causa di un fuoco magico che non si spegneva. La curiosità del Re aumenta ancora e decide di buttare in acqua un anello per poi chiedere al ragazzo di riportarglielo. Colapesce è titubante, ma decide ugualmente di buttarsi in acqua dicendo alle persone che avessero visto risalire a galla delle lenticchie e l’anello, lui non sarebbe più risalito. Dopo diversi giorni le lenticchie e l’anello che bruciava risalirono a galla ma non il ragazzo, ed il Re capì che il fuoco magico esisteva davvero e che Colapesce era rimasto in fondo al mare per sostenere la colonna corrosa.
La storia di Scilla
Scilla, figlia di Crateide, era una ninfa stupenda che si aggirava nelle spiagge di Zancle (Messina) e fece innamorare il dio marino Glauco, metà pesce e metà uomo. Rifiutato dalla ninfa, il dio marino chiede l’aiuto della maga Circe, senza sapere che la maga stessa era innamorata di lui.
La maga, offesa per il rifiuto del dio marino alla sua corte, decide di vendicarsi preparando una porzione a base di erbe magiche da versare nella sorgente in cui Scilla si bagna usualmente.
Appena Scilla si immerge, il suo corpo si trasforma e la parte inferiore accoglie sei cani, ciascuno dei quali con una orrenda bocca con denti appuntiti. Tali cani hanno dei colli lunghissimi a forma di serpente con cui possono afferrare gli esseri viventi da divorare.
A causa di questa trasformazione, Scilla si nasconde in un antro presso lo stretto di Messina. Decide anche di vendicarsi di Circe privando Ulisse dei suoi uomini mentre lui stava attraversando lo stretto. Successivamente ingoia anche le navi di Enea.
La leggenda vuole che Eracle, attaccato dalla ninfa mentre attraversa l’Italia con il bestiame di Gerione, la uccide, ma il padre della ragazza riesce a richiamarla in vita grazie alle sue arti magiche.
Il suo nome ricorda “colei che dilania”. Insieme a Cariddi, per i greci impersona le forze distruttrici del mare. Queste due divinità, localizzate tra le due rive dello stretto di Messina, rappresentano i pericoli del mare.

La storia di Cariddi
Tale mostro impersona, nell’immaginario collettivo, un vortice formato dalle acque dello stretto. Tale ninfa mitologica greca è figlia di Poseidone e di Gea ed era tormentata da una grande voracità. Giove la scaglia sulla terra insieme ad un fulmine. E’ abituata a bere grandi quantità di acqua che poi ributta in mare Anche in questo caso, come il precedente, il passaggio di Eracle dallo stretto di Messina insieme all’armento di Gerione è provvidenziale: quando essa gli rubò alcuni buoi per divorarli, Giove la colpisce con il fulmine e la ninfa precipita in mare trasformata in un mostro. Il primo a raccontare questo mito fu Omero spiegando che Cariddi si trova di fronte a Scilla. Anche Virgilio parla di Cariddi nel suo poema Eneide.

La storia della Fata Morgana
La leggenda ci tramanda che, dopo aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si trasferisce in Sicilia tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non si avvicinano a causa delle forti tempeste, e si costruisce un palazzo di cristallo. Sempre in base alla leggenda, Morgana esce dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli e getta nell'acqua tre sassi, il mare diventa di cristallo e riflette immagini di città. Grazie alle sue abilità, la Fata Morgana riesce ad ingannare il navigante che, illuso dal movimento dei castelli aerei, crede di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga nelle braccia della fata. La Fata Morgana non è altro che un fenomeno ottico che si ammira spesso nello stretto di Messina e nell'isola di Favignana a causa di particolari condizioni atmosferiche. Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede nello stretto Reggio.

La storia di Mata e Grifone
A Messina viveva una bella ragazza dalla grande fede cristiana, figlia di re Cosimo II da Casteluccio; il suo nome Marta in dialetto si trasforma in Matta o Mata. Verso il 970 dopo Cristo il gigante moro Hassan Ibn-Hammar sbarcò a Messina, con i suoi compagni pirati e incominciò a depredare nelle terre in cui passava. Un giorno il moro vide la bella fanciulla e se ne innamora, la chiede in sposa ma ottiene un rifiuto. Ciò provocò l'ira del pirata che uccise e saccheggiò più di prima. I genitori, preoccupati, nascosero Marta, ma il moro riuscì a rapirla con la speranza di convincerla a sposarlo. Marta non ricambiava il suo amore trovando nella preghiera la forza a sopportare le pressioni del moro. Alla fine, il moro si converte al cristianesimo e cambia il suo nome in Grifone. Marta apprezza il gesto e decide di sposarlo. La tradizione ci tramanda che furono loro a fondare Messina.

La leggenda del gigante Tifeo
E’ la leggenda che stabilisce che la Sicilia è sorretta dal gigante Tifeo che, osando impadronirsi della sede celeste, fu condannato a questo supplizio.
Con la mano destra sorregge Peloro (Messina), con la sinistra Pachino, Lilibeo (Trapani) poggia sulle sue gambe e sulla sua testa l'Etna. Tifeo vomita fiamme dalla bocca. Quando cerca di liberarsi dal peso delle città e delle grandi montagne la terra trema.


I LIGURI

Leggenda della Liguria
Fra i popoli dell'antichità, quello dei Liguri è uno dei più misteriosi. Dotati di straordinaria forza fisica, selvaggi e primitivi, avrebbero messo in difficoltà lo stesso Eracle. Si dice infatti che i due fratelli Albione e Ligure, re dei Liguri e figli di Poseidone (quindi, per i Greci, incarnazione di potenze telluriche), avessero rubato i buoi del semidio, il quale li inseguì fino alle foci del Rodano (per gli antichi la Liguria comprendeva, oltre a tutta l'Italia settentrionale, la Provenza e la Catalogna). Ma qui Eracle incontrò una tenace resistenza, perse le armi e stava per essere sopraffatto, sennonché suo padre Zeus gli venne in aiuto e fece cadere dal cielo una pioggia di massi, che decimò quegli irriducibili avversari.

Per quanto duro e feroce, questo popolo era però sensibile alla musica e al canto; se per alcuni, infatti, l'etimo del loro nome è da ricondursi ad una radice *lig- che nella loro lingua significava fango (non molto diversamente dal nome di Adamo, che vuol dire terra rossa), secondo altri questo nome è da riconnettersi con il greco liguò , cioè canoro, sonoro. Si dice appunto che un altro loro re, Cicno, quando il suo amico Fetonte cadde nell'Eridano, dopo aver cercato di guidare il carro del Sole, ne morì dal dispiacere, e allora Zeus, impietosito, lo tramutò in cigno dal dolce canto, mentre le sorelle di Fetonte, che erano alla corte di Cicno, furono mutate in pioppi, che ancora oggi si vedono in lunghe file presso il Po, e le loro lacrime divennero ambra, nella quale i Liguri, appunto, commerciavano fin da epoche remote. E questi miti sono narrati da Eschilo, in un frammento della trilogia di Prometeo, da Apollodoro, e da Ovidio.

LA TRADIZIONE MITICA
Bisognerebbe supporre che I’autore dei Racconti alla corte di Alcinoo era in possesso di notizie particolareggiate sui paesi del Mediterraneo occidentale. Bisognerebbe riconoscere che già nell’età omerica, cioè – se dobbiamo credere alla tradizione – molto prima che i navigatori euboici riaprissero nel secolo VIII la via per l’Italia e la Sicilia, i Greci avevano nozioni precise su queste regioni, e anche sulla lontana Iberia. Naturalmente, né il poeta né gli stessi Achei dell’età eroica dovettero avere una conoscenza diretta di questi mari, ancora popolati di mostri e di dei: Itaca, il regno di Ulisse, era I’estremo limite nord-occidentale del mondo acheo. Se quei mari fossero gia stati regolarmente solcati dai Greci, certamente non vi sarebbero state localizzate tante storie prodigiose. E il testo stesso dell’Odissea fornisce in proposito una testimonianza preziosa. Se, infatti, il poeta e i suoi contemporanei o predecessori avessero avuto un’esperienza diretta dei mari occidentali, non si spiegherebbero certi errori che si notano qua e là nel poema: poiché è vero che la descrizione dello scenario dei vari episodi è quasi sempre di un realismo e di una verità minuziosi e stupefacenti, ma qualche inesattezza notevole si riscontra nei Racconti alla corte di Alcinoo. La fonte dei Pioppi ricordata nell’episodio del ciclope (canto IX, vv. 140-41) non pare ci sia mai stata nella PiccoIa Isola, a quel che si può giudicare dalla Nisida odierna; la si ritrova invece sulla costa di fronte, ai piedi dell’altro versante del promontorio di Posillipo "; così pure la grotta dalle quattro fonti dell’episodio di Calipso va ricercata ai piedi del monte delle Scimmie, e non nell’isolotto di Perejil ".
Analogamente, l’autore della Telemacbia non deve aver conosciuto direttamente Itaca e i suoi paraggi: i Porti Gemelli, cioè il porto a due entrate a cui si accenna nell’episodio dell’imboscata ordita dai Proci (canto IV, vv. 844-47), esistono veramente, ma non si trovano sulI’isolotto di Asteride come dice il poeta, bensì sulla costa antistante". Un errore di prospettiva più grave riguarda la distanza che separa gli scogli delle Sirene da Scilla e Cariddi: parrebbe che, secondo il poeta, Scilla e Cariddi si trovino vicinissime alla località dove vivono le Sirene, poiché Ulisse, appena perde di vista queste ultime, si trova subito di fronte allo stretto sulle cui rive abitano i due mostri. Ora, dalla penisola di Sorrento allo stretto di Messina ci sono in linea d’aria qualcosa come duecentottanta chilometri. Viceversa, si direbbe che il poeta ignori che il luogo in cui si svolge la Nekyia è contiguo al paese dei Ciclopi, o meglio non è altro che la terra stessa dei Ciclopi. Ancor più caratteristico e il fatto che nell’Odissea l’" Isola del Sole ", la Sicilia, sia designata col nome di Thrinakie. La Sicilia fu chiamata Trinacria, cioè " Isola dalle Tre Punte ", dai Greci, e dai Latini Triquetra, cioè " Isola Triangolare ". Mentre questi due nomi corrispondono a quella che è approssimativamente la forma della Sicilia, il nome di Thrinakie, " Isola del Tridente ", non può derivare che da una confusione di idee: l’autore dei Racconti alla corte di Alcinoo deve essersi immaginato la Sicilia, l’" Isola dai Tre Capi ", come una penisola calcidese o un Peloponneso che si protende verso I’alto mare con tre lingue di terra parallele ". Simili errori si comprendono se Omero e i suoi primi ascoltatori non furono in rapporti diretti con l’Occidente, non conobbero per esperienza diretta i mari italiani e siciliani esplorati dall’eroe, dal grande cercatore: l’esame del testo odissiaco induce a trarre questa conclusione, che del resto trova una conferma nelle idee che i Greci dell’età classica o postclassica avevano della geografia omerica, nelle loro incertezze o anche nel loro " non sapere ". A tal punto gli antichi ammiravano Omero, sui cui testi I’Ellade tutta imparava a leggere, da considerarlo volentieri la fonte di ogni saggezza, oltre che di tutta la scienza, di tutta la storia, e in particolare di tutta la geografia. Socrate poteva anche ridere delle sciocchezze a cui Jone, il rapsodo, nell’eccesso del suo zelo, si lasciava andare in questo senso; ma nell’antichità era opinione comune che i luoghi descritti dal poeta non fossero immaginari, bensì reali.
Più di una volta Strabone, nella sua Geografia, afferma che l’Odissea non è un’opera di pura fantasia, ma racchiude un fondo di verità, al pari della leggenda degli Argonauti . Strabone pensa che il poema si fondi su nozioni geografiche precise; crede addirittura di sapere che siano stati i Fenici a ragguagliare Omero sulla lontana Iberia "; e a ogni occasione non manca di identificare con luoghi reali le località in cui il poeta fa approdare Ulisse. Tuttavia, su queste localizzazioni gli antichi non sempre erano unanimi; e non sempre le loro ipotesi furono felici.
I Greci dell’età classica e postclassica, come identificavano I’isola dei Feaci con Corcira", così localizzavano di consueto Scilla e Cariddi sulle due sponde dello stretto di Messina ". Situavano nell’angolo nord-orientale della Sicilia l’episodio dei " buoi del Sole ", e pensavano che il regno di EoIo, il signore dei venti, fosse I’arcipelago delle Lipari (delle Eolie) ". Gli scogli delle Sirene erano generalmente identificati con i tre isolotti che fiancheggiavano la penisola di Sorrento dalla parte meridionale; e il luogo in cui Ulisse consulta i morti era posto nei paraggi del lago Averno ".
Infine, il Circeo serbava col suo nome (conservatosi fino a oggi) il ricordo di Circe, la maga ". Su altri punti, invece, le identificazioni avanzate dai Greci dell’età classica erano inesatte, o per lo meno incerte, e comunque contraddittorie.
Secondo una tradizione diversa da quella a cui abbiamo or ora accennato, le Sirene si sarebbero trovate nei pressi del capo Peloro, nelle immediate vicinanze dello stretto di Messina ". E sempre su questo stretto gli antichi, ingannati forse da un passo interpolato dal canto XXIII, situavano talvolta le due Rupi Erranti, che altre volte ricercavano ai quattro angoli del Mediterraneo". Essi avevano – è vero – capito come il ciclope fosse soltanto la tras6gurazione poetica di un vulcano, ma questo vulcano lo situavano a torto in Sicilia, dove nel periodo classico l’Etna era ancora in attività, come lo è anche ai nostri giorni, e non pensavano ai crateri spenti dei Campi Flegrei. E così Tucidide considerava i Ciclopi, e con essi i Lestrigoni, i più antichi abitatori della Sicilia; certo, aggiungeva subito di non saper nulla di preciso sul loro conto e rinviava, quindi, il lettore a quel che ne dicevano i poeti". In questa regione, dove pure nulla corrisponde alle descrizioni dell’Odissea, perfino Virgilio continuava a localizzare, sulle orme di tutti i suoi predecessori, l’avventura di Ulisse presso Polifemo"; e a tre isolotti situati nei pressi della costa siciliana, un po’ più a nord di Catania, di fronte a un’insenatura chiamata il porto di Ulisse, fu dato nell’antichità il nome di scogli dei Ciclopi, nome rimasto fino a oggi ".
Anche i Lestrigoni vennero annoverati fra i più antichi abitatori della Sicilia, e si pensava che fossero vissuti nella regione di Lentini; ma secondo un’altra tradizione il loro regno si sarebbe trovato in Campania, nei pressi di Formia".
L’isola di Calipso era ricercata in tutto il Mediterraneo, dal mare di Creta fino all’oceano, e talora si voleva che fosse nell’Ionio, dove la si identificava con un isolotto vicino alla costa di Crotone, talaltra si voleva che fosse nel Tirreno". Quanto ai Lotofagi, infine, il loro paese veniva cercato in molte parti del Mediterraneo, ma per lo più veniva localizzato nei pressi di Agrigento e di Camarina ". Già questi errori, e più ancora queste contraddittorie opinioni, dovrebbero provare di per se come l’Odissea non possa essere stata la traduzione poetica dei contatti che gli Elleni del secolo VIII stabilirono con l’Italia e la Sicilia. Forse l’autore dei Racconti alla corte di Alcinoo servì da guida ai primi esploratori greci che nel secolo VIII scoprirono la via dei mari italiani e furono i pionieri della colonizzazione della Magna Grecia; ma certamente non fu loro discepolo. Quei Greci del secolo VIII, che avevano in mente i versi del poeta, cercarono di ritrovare, grazie all’aspetto dei luoghi, e forse anche con l’aiuto delle tradizioni locali", i posti odissiaci nei mari che stavano scoprendo: e allo stesso modo, più tardi, quando anche i mari italiani furono divenuti loro troppo familiari, cercarono nel Far West mediterraneo quei paesi popolati di dei e di mostri". Ma certamente non a essi l’autore dei Racconti alla corte di Alcinoo attinse le sue conoscenze geografiche e la sua toponomastica, così diversa dalla loro. Anzi, fra quel filone di tradizioni (forse lungo) che sfocia nell’Odissea e il nuovo filone di tradizioni inaugurato dalle esplorazioni e dalla colonizzazione del secolo VIII, si dovrà supporre una discontinuità, una frattura se si vogliono spiegare quegli errori e quelle incertezze che abbiamo riscontrato nelle opinioni degli antichi.


LE SIRENE

Mentre tante divinità inferiori del mare, create in parte dalla fantasia dei nostri padri antichi, sono dimenticate dal popolo, che non sa più dire cosa alcuna delle Oceanidi belle e delle figlie gentili di Nereo, il ricordo delle sirene è indimenticabile fra gli abitanti di molte spiagge nostre meridionali; e si potrebbe affermare che fra le leggende marinaresche quelle che dicono del fortissimo nuotatore ColaPesce e delle sirene siano le più popolari in certe regioni d'Italia.
E forse quando i pescatori di Napoli, della Calabria e della Sicilia vanno di notte sul mare nelle barchette brune, e dicono la canzone dell'amore o quella del dolore, il suon dell'arpe d'oro si accompagna al loro canto col mormorio delle onde; bianche figure splendenti si mostrano sull'acqua che trema, ed al pari dei loro padri antichi essi odono altri canti armoniosi che promettono l'amore e la felicità.
Le sirene non si dilettarono solo nel trarre a perdizione i marinai colle promesse ingannevoli e con l’armonia delle voci divine; ma spesso presero parte ad azioni diverse che si svolgono in molte leggende e novelline popolari.
In uno dei racconti più antichi del mondo, che forse dilettò parecchi Faraoni egiziani, si narrano le strane avventure del Principe Predestinato; sulle nostre spiagge del mare Jonio si dice invece, in una leggenda marinaresca, del Principe Nato e non veduto, vittima delle sirene.

Questa leggenda così diversa nella conclusione da quella del Principe Predestinato, figlio di qualche antico Faraone, che giunge a trionfare del fato, il quale lo vuole ucciso da un serpente, da un coccodrillo o da un cane, è assai notevole, perché avviene di trovare in essa una strana confusione delle sirene colle fate e colle streghe, che hanno facoltà di mutarsi in gatti, secondo le credenze popolari di molte genti.
Fra le leggende popolari che dilettano i Lapponi a tanta distanza dal nostro cielo azzurro e dall'incanto delle nostre marine, ritrovai con qualche variante la leggenda calabrese di Bíancofíore e quella della bella fanciulla di terra d'Otranto sposata dal re; e forse quando le donne dei nostri pescatori, riunite nelle casette presso le spiagge o sedute sull'arena al bel sole d'Italia, raccontano ai figlioletti le avventure delle fanciulle raccolte in mare dalle sirene, altre donne verso il Polo ripetono in lingua tanto diversa, nelle capanne coperte di ghiaccio e sulle sponde desolate dell'Oceano glaciale lo stesso racconto, in cui la strana figura di Attjis-ene, malvagia donna del mare, fa le veci delle nostre sirene. In questa leggenda dei Lapponi la fanciulla si muta in anitra e questa è una variante della nostra leggenda calabrese sullo stesso argomento, in cui le oche scoprono l'inganno allo sposo di Biancofiore.
Secondo certe tradizioni siciliane note nella contea di Modica, la sirena non ha la solita perfidia, e pare che si assomigli alquanto a certe nordiche figure di sirene, che avvertono i marinai dei pericoli ai quali vanno incontro. Questa sirena siciliana vive nel fondo del mare, in una grotta di brillanti, di perle e di calamita, e solo una volta all'anno lascia la sua splendida dimora, quando ricorre la festa di San Paolo, dal 24 al 25 gennaio.
Ella s'avvicina alla spiaggia e si dà a cantare tutta la notte, profetizzando di avvenimenti che succederanno entro l'anno, e predicendo l'avvenire a coloro che l'ascoltano.
Pare che vi sia a questo proposito una certa somiglianza fra la sirena siciliana e una ninfa o sirena dell'Edda scandinava, conosciuta certamente dai Normanni, che si chiamava Skulda e prediceva l'avvenire, mentre una sua compagna, Urda, conosceva il passato e Veranda il presente. Anche Glauco, secondo la credenza dei Greci, dopo aver mangiato l'erba che lo fece compagno degli altri dei del mare, appariva una volta all'anno sulle coste profetizzando.
La sirena di Modica fa pure sentire il suo canto quando nasce un bambino sventurato, o, secondo altre canzoni, è molto perfida, ride quando uccide, e per combattere contro di essa bisogna aver molta forza e grande coraggio.
Certe leggende siciliane dicono che la sirena abita nel Faro di Messina. Altri narra che due sirene bellissime e perfide chiamate Scilla e Cariddi dimoravano nel Faro e traevano le navi a perdizione.
Un gigante affermò che le avrebbe prese entrambe; si fece legare ad una fune, si gettò nel mare, giunse al fondo, afferrò le malefiche sirene che portò a terra e consegnò al popolo.

Non sappiamo se queste perfide figlie del mare, trasformazioni di mostri orribili, che atterrivano gli antichi marinai del Mediterraneo, venissero uccise sulla spiaggia, ma è certo che le sirene, potevano non solo essere mutate in rupi, ma anche morire, poiché Partenone mori e fu sepolta, ed anche la bella ninfa o sirena Amalfi fu sepolta sopra una spiaggia alla quale dette il suo nome.