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I Guardiani degli Abissi
marini
Gli
antichi popoli Mediterranei credevano che misteriosi guardiani
dell’abisso avessero il potere di cambiare i giorni fasti
in nefasti e di causare eclissi; il più temuto di questi
esseri era Leviathan, il Serpente del caos primordiale
che, avvolgendo nelle sue spire il Sole e la Luna, avrebbe potuto
divorarli.
Persino il popolo ebraico, che non aveva tradizioni marinare,
era terrorizzato da quel grande mostro.
E così era per Beemot, un altro mostro
marino dalle sembianze di gigantesco ippopotamo.
Nel Talmud si legge di un pesce, rimasto incredibilmente spiaggiato,
così enorme che se ne cibarono i cittadini di sessanta
città, e i suoi avanzi bastarono a conservare cibo per
altre sessanta città. Soltanto un occhio del gigantesco
mostro, colmò trecento misure d'olio...
Un altro mostro del Mediterraneo è Medusa,
di cui ci parla Omero nell'Odissea. Medusa è una delle
tre Gorgoni, figlie di Phorcys e di Ceto, divinità marine.
Esiodo ci tramanda che Medusa, un tempo meraviglia degli abissi
marini per la sua bellezza, fece innamorare Poseidone, e che dalla
loro unione nacque Pegaso, il cavallo alato. Ma ciò fece
salire su tutte le furie Athena, eterna rivale di Poseidone, che
si vendicò trasformando Medusa in un mostro orribile, con
una corona di serpi al posto dei capelli.
Tutti coloro che guardavano in faccia Medusa, rimanevano immediatamente
pietrificati.
I MITI E LE LEGGENDE DI SICILIA
Le leggende ed i miti profani
La storia di Colapesce
Cola o Nicola è di Messina ed è figlio
di un pescatore di Punta Faro. Cola ha la grande passione per
il mare. Amante anche dei pesci, ributta in mare tutti quelli
che il padre pesca in modo da permettere loro di vivere. Maledetto
dalla madre esasperata dal suo comportamento, Cola si trasforma
in pesce. Il ragazzo, che cambia il suo nome in Colapesce, vive
sempre di più in mare e le rare volte che ritorna in terra
racconta le meraviglie che vede. Diventa un bravo informatore
per i marinai che gli chiedono notizie per evitare le burrasche
ed anche un buon corriere visto che riesce a nuotare molto bene.
Fu nominato palombaro dal capitano di Messina. La sua fama aumenta
di giorno in giorno ed anche il Re di Sicilia Federico II lo vuole
conoscere e sperimentarne le capacità. Al loro incontro,
il Re getta una coppa d’oro in mare e chiede al ragazzo
di riportargliela. Al ritorno Colapesce gli racconta il paesaggio
marino che ha visto ed il Re gli regala la coppa. Il Re decide
di buttare in mare la sua corona ed il ragazzo impiega due giorni
e due notti per trovarla. Al suo ritorno egli racconta al Re d’aver
visto che la Sicilia poggia su tre colonne, una solidissima, la
seconda danneggiata e la terza scricchiolante a causa di un fuoco
magico che non si spegneva. La curiosità del Re aumenta
ancora e decide di buttare in acqua un anello per poi chiedere
al ragazzo di riportarglielo. Colapesce è titubante, ma
decide ugualmente di buttarsi in acqua dicendo alle persone che
avessero visto risalire a galla delle lenticchie e l’anello,
lui non sarebbe più risalito. Dopo diversi giorni le lenticchie
e l’anello che bruciava risalirono a galla ma non il ragazzo,
ed il Re capì che il fuoco magico esisteva davvero e che
Colapesce era rimasto in fondo al mare per sostenere la colonna
corrosa.
La storia di Scilla
Scilla, figlia di Crateide, era una ninfa stupenda che si aggirava
nelle spiagge di Zancle (Messina) e fece innamorare il dio marino
Glauco, metà pesce e metà uomo. Rifiutato dalla
ninfa, il dio marino chiede l’aiuto della maga Circe, senza
sapere che la maga stessa era innamorata di lui.
La maga, offesa per il rifiuto del dio marino alla sua corte,
decide di vendicarsi preparando una porzione a base di erbe magiche
da versare nella sorgente in cui Scilla si bagna usualmente.
Appena Scilla si immerge, il suo corpo si trasforma e la parte
inferiore accoglie sei cani, ciascuno dei quali con una orrenda
bocca con denti appuntiti. Tali cani hanno dei colli lunghissimi
a forma di serpente con cui possono afferrare gli esseri viventi
da divorare.
A causa di questa trasformazione, Scilla si nasconde in un antro
presso lo stretto di Messina. Decide anche di vendicarsi di Circe
privando Ulisse dei suoi uomini mentre lui stava attraversando
lo stretto. Successivamente ingoia anche le navi di Enea.
La leggenda vuole che Eracle, attaccato dalla ninfa mentre attraversa
l’Italia con il bestiame di Gerione, la uccide, ma il padre
della ragazza riesce a richiamarla in vita grazie alle sue arti
magiche.
Il suo nome ricorda “colei che dilania”. Insieme a
Cariddi, per i greci impersona le forze distruttrici del mare.
Queste due divinità, localizzate tra le due rive dello
stretto di Messina, rappresentano i pericoli del mare.
La storia di Cariddi
Tale mostro impersona, nell’immaginario collettivo, un vortice
formato dalle acque dello stretto. Tale ninfa mitologica greca
è figlia di Poseidone e di Gea ed era tormentata da una
grande voracità. Giove la scaglia sulla terra insieme ad
un fulmine. E’ abituata a bere grandi quantità di
acqua che poi ributta in mare Anche in questo caso, come il precedente,
il passaggio di Eracle dallo stretto di Messina insieme all’armento
di Gerione è provvidenziale: quando essa gli rubò
alcuni buoi per divorarli, Giove la colpisce con il fulmine e
la ninfa precipita in mare trasformata in un mostro. Il primo
a raccontare questo mito fu Omero spiegando che Cariddi si trova
di fronte a Scilla. Anche Virgilio parla di Cariddi nel suo poema
Eneide.
La storia della Fata Morgana
La leggenda ci tramanda che, dopo aver condotto suo fratello
Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si trasferisce in Sicilia
tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non si avvicinano
a causa delle forti tempeste, e si costruisce un palazzo di cristallo.
Sempre in base alla leggenda, Morgana esce dall'acqua con un cocchio
tirato da sette cavalli e getta nell'acqua tre sassi, il mare
diventa di cristallo e riflette immagini di città. Grazie
alle sue abilità, la Fata Morgana riesce ad ingannare il
navigante che, illuso dal movimento dei castelli aerei, crede
di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga
nelle braccia della fata. La Fata Morgana non è altro che
un fenomeno ottico che si ammira spesso nello stretto di Messina
e nell'isola di Favignana a causa di particolari condizioni atmosferiche.
Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria
l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria
verso Capo Peloro, si vede nello stretto Reggio.
La storia di Mata e Grifone
A Messina viveva una bella ragazza dalla grande fede
cristiana, figlia di re Cosimo II da Casteluccio; il suo nome
Marta in dialetto si trasforma in Matta o Mata. Verso il 970 dopo
Cristo il gigante moro Hassan Ibn-Hammar sbarcò a Messina,
con i suoi compagni pirati e incominciò a depredare nelle
terre in cui passava. Un giorno il moro vide la bella fanciulla
e se ne innamora, la chiede in sposa ma ottiene un rifiuto. Ciò
provocò l'ira del pirata che uccise e saccheggiò
più di prima. I genitori, preoccupati, nascosero Marta,
ma il moro riuscì a rapirla con la speranza di convincerla
a sposarlo. Marta non ricambiava il suo amore trovando nella preghiera
la forza a sopportare le pressioni del moro. Alla fine, il moro
si converte al cristianesimo e cambia il suo nome in Grifone.
Marta apprezza il gesto e decide di sposarlo. La tradizione ci
tramanda che furono loro a fondare Messina.
La leggenda del gigante Tifeo
E’ la leggenda che stabilisce che la Sicilia è
sorretta dal gigante Tifeo che, osando impadronirsi della sede
celeste, fu condannato a questo supplizio.
Con la mano destra sorregge Peloro (Messina), con la sinistra
Pachino, Lilibeo (Trapani) poggia sulle sue gambe e sulla sua
testa l'Etna. Tifeo vomita fiamme dalla bocca. Quando cerca di
liberarsi dal peso delle città e delle grandi montagne
la terra trema.
I LIGURI
Leggenda della Liguria
Fra
i popoli dell'antichità, quello dei Liguri è uno
dei più misteriosi. Dotati di straordinaria forza fisica,
selvaggi e primitivi, avrebbero messo in difficoltà lo
stesso Eracle. Si dice infatti che i due fratelli Albione e Ligure,
re dei Liguri e figli di Poseidone (quindi, per i Greci, incarnazione
di potenze telluriche), avessero rubato i buoi del semidio, il
quale li inseguì fino alle foci del Rodano (per gli antichi
la Liguria comprendeva, oltre a tutta l'Italia settentrionale,
la Provenza e la Catalogna). Ma qui Eracle incontrò una
tenace resistenza, perse le armi e stava per essere sopraffatto,
sennonché suo padre Zeus gli venne in aiuto e fece cadere
dal cielo una pioggia di massi, che decimò quegli irriducibili
avversari.
Per quanto duro e feroce, questo popolo era però
sensibile alla musica e al canto; se per alcuni, infatti, l'etimo
del loro nome è da ricondursi ad una radice *lig- che nella
loro lingua significava fango (non molto diversamente dal nome
di Adamo, che vuol dire terra rossa), secondo altri questo nome
è da riconnettersi con il greco liguò , cioè
canoro, sonoro. Si dice appunto che un altro loro re, Cicno, quando
il suo amico Fetonte cadde nell'Eridano, dopo aver cercato di
guidare il carro del Sole, ne morì dal dispiacere, e allora
Zeus, impietosito, lo tramutò in cigno dal dolce canto,
mentre le sorelle di Fetonte, che erano alla corte di Cicno, furono
mutate in pioppi, che ancora oggi si vedono in lunghe file presso
il Po, e le loro lacrime divennero ambra, nella quale i Liguri,
appunto, commerciavano fin da epoche remote. E questi miti sono
narrati da Eschilo, in un frammento della trilogia di Prometeo,
da Apollodoro, e da Ovidio.
LA TRADIZIONE MITICA
Bisognerebbe supporre che I’autore dei Racconti alla corte
di Alcinoo era in possesso di notizie particolareggiate sui paesi
del Mediterraneo occidentale. Bisognerebbe riconoscere che già
nell’età omerica, cioè – se dobbiamo
credere alla tradizione – molto prima che i navigatori euboici
riaprissero nel secolo VIII la via per l’Italia e la Sicilia,
i Greci avevano nozioni precise su queste regioni, e anche sulla
lontana Iberia. Naturalmente, né il poeta né gli
stessi Achei dell’età eroica dovettero avere una
conoscenza diretta di questi mari, ancora popolati di mostri e
di dei: Itaca, il regno di Ulisse, era I’estremo limite
nord-occidentale del mondo acheo. Se quei mari fossero gia stati
regolarmente solcati dai Greci, certamente non vi sarebbero state
localizzate tante storie prodigiose. E il testo stesso dell’Odissea
fornisce in proposito una testimonianza preziosa. Se, infatti,
il poeta e i suoi contemporanei o predecessori avessero avuto
un’esperienza diretta dei mari occidentali, non si spiegherebbero
certi errori che si notano qua e là nel poema: poiché
è vero che la descrizione dello scenario dei vari episodi
è quasi sempre di un realismo e di una verità minuziosi
e stupefacenti, ma qualche inesattezza notevole si riscontra nei
Racconti alla corte di Alcinoo. La fonte dei Pioppi ricordata
nell’episodio del ciclope (canto IX, vv. 140-41) non pare
ci sia mai stata nella PiccoIa Isola, a quel che si può
giudicare dalla Nisida odierna; la si ritrova invece sulla costa
di fronte, ai piedi dell’altro versante del promontorio
di Posillipo "; così pure la grotta dalle quattro
fonti dell’episodio di Calipso va ricercata ai piedi del
monte delle Scimmie, e non nell’isolotto di Perejil ".
Analogamente, l’autore della Telemacbia non deve aver conosciuto
direttamente Itaca e i suoi paraggi: i Porti Gemelli, cioè
il porto a due entrate a cui si accenna nell’episodio dell’imboscata
ordita dai Proci (canto IV, vv. 844-47), esistono veramente, ma
non si trovano sulI’isolotto di Asteride come dice il poeta,
bensì sulla costa antistante". Un errore di prospettiva
più grave riguarda la distanza che separa gli scogli delle
Sirene da Scilla e Cariddi: parrebbe che, secondo il poeta, Scilla
e Cariddi si trovino vicinissime alla località dove vivono
le Sirene, poiché Ulisse, appena perde di vista queste
ultime, si trova subito di fronte allo stretto sulle cui rive
abitano i due mostri. Ora, dalla penisola di Sorrento allo stretto
di Messina ci sono in linea d’aria qualcosa come duecentottanta
chilometri. Viceversa, si direbbe che il poeta ignori che il luogo
in cui si svolge la Nekyia è contiguo al paese dei Ciclopi,
o meglio non è altro che la terra stessa dei Ciclopi. Ancor
più caratteristico e il fatto che nell’Odissea l’"
Isola del Sole ", la Sicilia, sia designata col nome di Thrinakie.
La Sicilia fu chiamata Trinacria, cioè " Isola dalle
Tre Punte ", dai Greci, e dai Latini Triquetra, cioè
" Isola Triangolare ". Mentre questi due nomi corrispondono
a quella che è approssimativamente la forma della Sicilia,
il nome di Thrinakie, " Isola del Tridente ", non può
derivare che da una confusione di idee: l’autore dei Racconti
alla corte di Alcinoo deve essersi immaginato la Sicilia, l’"
Isola dai Tre Capi ", come una penisola calcidese o un Peloponneso
che si protende verso I’alto mare con tre lingue di terra
parallele ". Simili errori si comprendono se Omero e i suoi
primi ascoltatori non furono in rapporti diretti con l’Occidente,
non conobbero per esperienza diretta i mari italiani e siciliani
esplorati dall’eroe, dal grande cercatore: l’esame
del testo odissiaco induce a trarre questa conclusione, che del
resto trova una conferma nelle idee che i Greci dell’età
classica o postclassica avevano della geografia omerica, nelle
loro incertezze o anche nel loro " non sapere ". A tal
punto gli antichi ammiravano Omero, sui cui testi I’Ellade
tutta imparava a leggere, da considerarlo volentieri la fonte
di ogni saggezza, oltre che di tutta la scienza, di tutta la storia,
e in particolare di tutta la geografia. Socrate poteva anche ridere
delle sciocchezze a cui Jone, il rapsodo, nell’eccesso del
suo zelo, si lasciava andare in questo senso; ma nell’antichità
era opinione comune che i luoghi descritti dal poeta non fossero
immaginari, bensì reali.
Più di una volta Strabone, nella sua Geografia, afferma
che l’Odissea non è un’opera di pura fantasia,
ma racchiude un fondo di verità, al pari della leggenda
degli Argonauti . Strabone pensa che il poema si fondi su nozioni
geografiche precise; crede addirittura di sapere che siano stati
i Fenici a ragguagliare Omero sulla lontana Iberia "; e a
ogni occasione non manca di identificare con luoghi reali le località
in cui il poeta fa approdare Ulisse. Tuttavia, su queste localizzazioni
gli antichi non sempre erano unanimi; e non sempre le loro ipotesi
furono felici.
I Greci dell’età classica e postclassica, come identificavano
I’isola dei Feaci con Corcira", così localizzavano
di consueto Scilla e Cariddi sulle due sponde dello stretto di
Messina ". Situavano nell’angolo nord-orientale della
Sicilia l’episodio dei " buoi del Sole ", e pensavano
che il regno di EoIo, il signore dei venti, fosse I’arcipelago
delle Lipari (delle Eolie) ". Gli scogli delle Sirene erano
generalmente identificati con i tre isolotti che fiancheggiavano
la penisola di Sorrento dalla parte meridionale; e il luogo in
cui Ulisse consulta i morti era posto nei paraggi del lago Averno
".
Infine, il Circeo serbava col suo nome (conservatosi fino a oggi)
il ricordo di Circe, la maga ". Su altri punti, invece, le
identificazioni avanzate dai Greci dell’età classica
erano inesatte, o per lo meno incerte, e comunque contraddittorie.
Secondo una tradizione diversa da quella a cui abbiamo or ora
accennato, le Sirene si sarebbero trovate nei pressi del capo
Peloro, nelle immediate vicinanze dello stretto di Messina ".
E sempre su questo stretto gli antichi, ingannati forse da un
passo interpolato dal canto XXIII, situavano talvolta le due Rupi
Erranti, che altre volte ricercavano ai quattro angoli del Mediterraneo".
Essi avevano – è vero – capito come il ciclope
fosse soltanto la tras6gurazione poetica di un vulcano, ma questo
vulcano lo situavano a torto in Sicilia, dove nel periodo classico
l’Etna era ancora in attività, come lo è anche
ai nostri giorni, e non pensavano ai crateri spenti dei Campi
Flegrei. E così Tucidide considerava i Ciclopi, e con essi
i Lestrigoni, i più antichi abitatori della Sicilia; certo,
aggiungeva subito di non saper nulla di preciso sul loro conto
e rinviava, quindi, il lettore a quel che ne dicevano i poeti".
In questa regione, dove pure nulla corrisponde alle descrizioni
dell’Odissea, perfino Virgilio continuava a localizzare,
sulle orme di tutti i suoi predecessori, l’avventura di
Ulisse presso Polifemo"; e a tre isolotti situati nei pressi
della costa siciliana, un po’ più a nord di Catania,
di fronte a un’insenatura chiamata il porto di Ulisse, fu
dato nell’antichità il nome di scogli dei Ciclopi,
nome rimasto fino a oggi ".
Anche i Lestrigoni vennero annoverati fra i più antichi
abitatori della Sicilia, e si pensava che fossero vissuti nella
regione di Lentini; ma secondo un’altra tradizione il loro
regno si sarebbe trovato in Campania, nei pressi di Formia".
L’isola di Calipso era ricercata in tutto il Mediterraneo,
dal mare di Creta fino all’oceano, e talora si voleva che
fosse nell’Ionio, dove la si identificava con un isolotto
vicino alla costa di Crotone, talaltra si voleva che fosse nel
Tirreno". Quanto ai Lotofagi, infine, il loro paese veniva
cercato in molte parti del Mediterraneo, ma per lo più
veniva localizzato nei pressi di Agrigento e di Camarina ".
Già questi errori, e più ancora queste contraddittorie
opinioni, dovrebbero provare di per se come l’Odissea non
possa essere stata la traduzione poetica dei contatti che gli
Elleni del secolo VIII stabilirono con l’Italia e la Sicilia.
Forse l’autore dei Racconti alla corte di Alcinoo servì
da guida ai primi esploratori greci che nel secolo VIII scoprirono
la via dei mari italiani e furono i pionieri della colonizzazione
della Magna Grecia; ma certamente non fu loro discepolo. Quei
Greci del secolo VIII, che avevano in mente i versi del poeta,
cercarono di ritrovare, grazie all’aspetto dei luoghi, e
forse anche con l’aiuto delle tradizioni locali", i
posti odissiaci nei mari che stavano scoprendo: e allo stesso
modo, più tardi, quando anche i mari italiani furono divenuti
loro troppo familiari, cercarono nel Far West mediterraneo quei
paesi popolati di dei e di mostri". Ma certamente non a essi
l’autore dei Racconti alla corte di Alcinoo attinse le sue
conoscenze geografiche e la sua toponomastica, così diversa
dalla loro. Anzi, fra quel filone di tradizioni (forse lungo)
che sfocia nell’Odissea e il nuovo filone di tradizioni
inaugurato dalle esplorazioni e dalla colonizzazione del secolo
VIII, si dovrà supporre una discontinuità, una frattura
se si vogliono spiegare quegli errori e quelle incertezze che
abbiamo riscontrato nelle opinioni degli antichi.
LE SIRENE
Mentre
tante divinità inferiori del mare, create in parte dalla
fantasia dei nostri padri antichi, sono dimenticate dal popolo,
che non sa più dire cosa alcuna delle Oceanidi belle e
delle figlie gentili di Nereo, il ricordo delle sirene è
indimenticabile fra gli abitanti di molte spiagge nostre meridionali;
e si potrebbe affermare che fra le leggende marinaresche quelle
che dicono del fortissimo nuotatore ColaPesce e delle sirene siano
le più popolari in certe regioni d'Italia.
E forse quando i pescatori di Napoli, della Calabria e della Sicilia
vanno di notte sul mare nelle barchette brune, e dicono la canzone
dell'amore o quella del dolore, il suon dell'arpe d'oro si accompagna
al loro canto col mormorio delle onde; bianche figure splendenti
si mostrano sull'acqua che trema, ed al pari dei loro padri antichi
essi odono altri canti armoniosi che promettono l'amore e la felicità.
Le sirene non si dilettarono solo nel trarre a perdizione i marinai
colle promesse ingannevoli e con l’armonia delle voci divine;
ma spesso presero parte ad azioni diverse che si svolgono in molte
leggende e novelline popolari.
In uno dei racconti più antichi del mondo, che forse dilettò
parecchi Faraoni egiziani, si narrano le strane avventure del
Principe Predestinato; sulle nostre spiagge del mare Jonio si
dice invece, in una leggenda marinaresca, del Principe Nato e
non veduto, vittima delle sirene.
Questa leggenda così diversa nella conclusione
da quella del Principe Predestinato, figlio di qualche antico
Faraone, che giunge a trionfare del fato, il quale lo vuole ucciso
da un serpente, da un coccodrillo o da un cane, è assai
notevole, perché avviene di trovare in essa una strana
confusione delle sirene colle fate e colle streghe, che hanno
facoltà di mutarsi in gatti, secondo le credenze popolari
di molte genti.
Fra le leggende popolari che dilettano i Lapponi a tanta distanza
dal nostro cielo azzurro e dall'incanto delle nostre marine, ritrovai
con qualche variante la leggenda calabrese di Bíancofíore
e quella della bella fanciulla di terra d'Otranto sposata dal
re; e forse quando le donne dei nostri pescatori, riunite nelle
casette presso le spiagge o sedute sull'arena al bel sole d'Italia,
raccontano ai figlioletti le avventure delle fanciulle raccolte
in mare dalle sirene, altre donne verso il Polo ripetono in lingua
tanto diversa, nelle capanne coperte di ghiaccio e sulle sponde
desolate dell'Oceano glaciale lo stesso racconto, in cui la strana
figura di Attjis-ene, malvagia donna del mare, fa le veci delle
nostre sirene. In questa leggenda dei Lapponi la fanciulla si
muta in anitra e questa è una variante della nostra leggenda
calabrese sullo stesso argomento, in cui le oche scoprono l'inganno
allo sposo di Biancofiore.
Secondo certe tradizioni siciliane note nella contea di Modica,
la sirena non ha la solita perfidia, e pare che si assomigli alquanto
a certe nordiche figure di sirene, che avvertono i marinai dei
pericoli ai quali vanno incontro. Questa sirena siciliana vive
nel fondo del mare, in una grotta di brillanti, di perle e di
calamita, e solo una volta all'anno lascia la sua splendida dimora,
quando ricorre la festa di San Paolo, dal 24 al 25 gennaio.
Ella s'avvicina alla spiaggia e si dà a cantare tutta la
notte, profetizzando di avvenimenti che succederanno entro l'anno,
e predicendo l'avvenire a coloro che l'ascoltano.
Pare che vi sia a questo proposito una certa somiglianza fra la
sirena siciliana e una ninfa o sirena dell'Edda scandinava, conosciuta
certamente dai Normanni, che si chiamava Skulda e prediceva l'avvenire,
mentre una sua compagna, Urda, conosceva il passato e Veranda
il presente. Anche Glauco, secondo la credenza dei Greci, dopo
aver mangiato l'erba che lo fece compagno degli altri dei del
mare, appariva una volta all'anno sulle coste profetizzando.
La sirena di Modica fa pure sentire il suo canto quando nasce
un bambino sventurato, o, secondo altre canzoni, è molto
perfida, ride quando uccide, e per combattere contro di essa bisogna
aver molta forza e grande coraggio.
Certe leggende siciliane dicono che la sirena abita nel Faro di
Messina. Altri narra che due sirene bellissime e perfide chiamate
Scilla e Cariddi dimoravano nel Faro e traevano le navi a perdizione.
Un gigante affermò che le avrebbe prese entrambe; si fece
legare ad una fune, si gettò nel mare, giunse al fondo,
afferrò le malefiche sirene che portò a terra e
consegnò al popolo.
Non sappiamo se queste perfide figlie del mare,
trasformazioni di mostri orribili, che atterrivano gli antichi
marinai del Mediterraneo, venissero uccise sulla spiaggia, ma
è certo che le sirene, potevano non solo essere mutate
in rupi, ma anche morire, poiché Partenone mori e fu sepolta,
ed anche la bella ninfa o sirena Amalfi fu sepolta sopra una spiaggia
alla quale dette il suo nome.
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