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Racconti di mare
Racconti di Mare
 
Gli alunni scrivono…….

Passeggiavo sulla spiaggia di sassi scuri,mentre osservavo le onde infrangersi sugli scogli aguzzi……….la spiaggia si estendeva fino all’orizzonte,dove brillava di bagliori dorati………..vide passare una barca,un tre alberi di legno,con gigantesche vele bianche….per ammirarla megliostese sulla spiaggia il velo che aveva tra le mani…..non c’è ancora nessuno tranne un pescatore vicinoalla sua barca….finalmente raggiungo Lerici…..il respiro del mare in pochi istanti di una vita qualunque….

 

 

 

…Mare in tempesta…

Passeggiavo sulla spiaggia di sassi scuri, mentre osservavo le onde infrangersi sugli scogli aguzzi, come un ariete si scaglia sul suo avversario, poi tornare a lenirsi, come se l’ariete fosse stato colpito e dolente si fosse accasciato al suolo; ma come esso riprende le forze e caparbio si catapulta ancora più forte di prima sul nemico che prontamente lo respinge, anche le onde non si arrendono e testarde tentano invano l’impresa di sormontare gli imponenti scogli, come fossero mura di cinta, per approdare al castello e distruggerlo.
La loro impresa non è sempre un fallimento perché le onde, quando sono fiancheggiate dal vento e dalle correnti marine si gonfiano, spesso in proporzioni devastanti, si alzano a dismisura, superando gli scogli e minacciando l’equilibrio sulla spiaggia travolgendo con la loro mole le rocce e qualsiasi cosa siano lungo la sua rotta.
Esse, nonostante l’infinita lotta e la loro orgogliosa morte, si manifestano con singolare maestosità, esibendosi in spettacolari acrobazie dopo aver urtato le rocce che delimitano il confine tra mare e terra, sfidando la forza di gravità e le leggi della fisica e creando spumeggianti e fantastiche coreografie.
Ma le onde non sono solo sinonimo di bellezza sconfinata, ma sono spesso artefici di paesaggi desolanti o spiagge ricoperte interamente da tronchi di legno e da detriti gettati in mare dall’uomo e trasportati dalle correnti.
Allo stesso tempo il mare non ha solo il bello dei movimenti delle onde e dei variopinti fondali, ma la mostruosità dell’inquinamento e l’atrocità di essere un luogo di morte, non solo per i naufraghi, ma per i gabbiani soffocati dal petrolio dopo i disastri per l’affondamento di navi petrolifere.
A questo proposito bisogna considerare che il mare è pieno di bellezze e doni come la vita e non bisogna sottovalutare la sua importanza e salvaguardare il suo equilibrio naturale.

Armelloni Eliana

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L'olio Solare

E’ estate. Sono appena arrivato sulla spiaggia, stendo l’asciugamano e mi siedo; ma è ancora presto sono circa le sette e mezza, non c’è ancora nessuno tranne qualche pescatore vicino alla sua barca che aspetta gli altri per iniziare una nuova giornata di pesca. Decido di alzarmi per fare una passeggiata. Camminando guardo il mare, è piatto come una tavola e c’è un silenzio straordinario. Poi ritorno al mio asciugamano, mi ci sdraio sopra, chiudo gli occhi e ascolto il suono provocato dalle piccole onde che sbattono sulle pietre. Dopo un pò sono svegliato da un rumore di passi, mi metto seduto e vedo che è una splendida ragazza. Per un motivo banale inizio a conoscerla e lei fa altrettanto con me. Dopo circa un quarto d’ora di conversazione si sdraia a pancia in giù e mi chiede di metterle un po’ di crema solare sulle spalle e sulle gambe. Dato che le mie orecchie non volevano sentire altro, non dico neanche di sì prendo subito l’olio solare me ne verso una quantità enorme sulle mani e inizio a toccare-spalmare non solo spalle e gambe, ma anche quasi tutto il resto. Poi tocca a me. Mi metto pancia a terra e lei inizia a massaggiarmi con l’abbronzante, era un cosa pazzesca ero su una spiaggia deserta da solo con una ragazza fantastica, anche i pescatori erano andati via. Chiusi gli occhi per qualche secondo. Sentii una mano sulla spalla e una voce che mi chiamava: ma non sembrava affatto la sua. Infatti, quando aprii gli occhi vidi la profe con una mano sulla mia spalla che cercava di svegliarmi per interrogarmi in italiano. Era stato tutto un sogno! La ragazza, il mare calmo, l’olio solare,perfino i pescatori…

Lauro Francesco

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IL BATTESIMO DEL MARE

Finalmente, il giorno sospirato tutto l' anno è arrivato!Le valigie sono pronte, il sole splende nel cielo e io respiro aria di vacanze.
Sono le sette di mattina, aspetto con impazienza il gruppo di amici, con cui ho deciso di trascorrere due lunghe settimane sulle splendide spiagge di Sharm el Sheikh, sul Mar Rosso.
Ecco il clacson, l' ultimo bacio a mia madre, che sicuramente passerà quindici giorni d' ansia e le ultime raccomandazioni a quel "maschiaccio" di mia sorella e via...............verso l'aereoporto di Pisa.
Il viaggio è stato molto piacevole ed ora finalmente siamo arrivati.Il posto è splendido, il mare, che è l' elemento della natura che più amo, è molto più che meraviglioso: guardarlo mi emoziona talmente tanto da togliermi il respiro.
Ho deciso, all'insaputa di mia madre, alla quale al solo pensiero verrebbe un collasso, di fare il battesimo del mare. Domani, con istruttori esperti, poco lontano dalla costa, insieme ad altri miei due amici, mi immergerò per la prima volta della mia vita.
L' idea mi affascina e allo stesso tempo mi terrorizza, ma ormai ho deciso e per nessuna ragione al mondo mi tirerò indietro.
Ho trascorso una notte tranquilla ed ora eccomi qui pronto al grande evento, mi tremano un pò le gambe ed ho il respiro leggermente accellerato, ma non sarà di certo questo a fermarmi.
Sono sott' acqua, mi invade una sensazione meravigliosa ed il panico di poco fa lascia campo libero ad una calma quasi innaturale che non ho mai provato. Lo scenario è meraviglioso, ci sono pesci variopinti e di varie misure che mi nuotano accanto.
Ad un certo punto, poco distante da noi, un' ombra minacciosa si avvicina: è uno squalo, non molto grande, ma pur sempre uno squalo; gli istruttori ci fanno cenno di nuotare il più velocemente possibile verso il motoscafo.
Ma è più facile a dirsi che a farsi, la paura ora è tanta.
Lo squalo si avvicina rapidamente e passandomi vicino, recide il tubo che collega la mia maschera alla bombola di ossigeno, cerco di risalire, ma troppo velocemente, mi si annebbia la vista, mi fischiano le orecchie, sto per svenire quando ecco una coppia di delfini mi si affianca e uno di loro si scaglia contro lo squalo.
Mentre uno dei delfini mette in fuga lo squalo, l' altro mi si avvicina ed io riesco ad aggrapparmi alla sua pinna dorsale e così risalgo in superficie.
E' stata un' esperienza terribile.Il mio battesimo del mare non è andato esattamente come avevo previsto.Ma due esseri meravigliosi, dagli occhi dolcissimi, mi hanno permesso di essere qui ora, a poter raccontarlo.

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Respiro del Mare

Stavo camminando lungo la spiaggia; il giorno prima era iniziata la scuola e io pensavo ai bei giorni trascorsi al mare con gli amici in un posto ormai per me sacro: Vieste, in Puglia, dove di giorno si andava alla spiaggia del Pizzomunno e la sera in Piazzetta Petrone a guardare film come “Gallo Cedrone” e attendere l’arrivo del protagonista Carlo Verdone per chiedere un autografo o fare una foto con lui. Ma questi sono ormai solo ricordi. Ora sono qui e cammino lungo la spiaggia di S. Terenzo. Il cielo è nuvoloso ma l’aria è tiepida, non ho nulla da fare. Un anziano signore si rivolge a me gridando : “ Giovine tuffati, che ancora puoi!”.
Io sorridendo dico che non posso perché non ho un costume. Lascio questa spiaggia per raggiungerne un’altra, la “Venere”. Qui sembra che il mare si sia stancato di risplendere e di tacere; le onde sono alte, i surfisti molti e irrequieti, la spiaggia è ormai inghiottita dalle onde. Alcune famiglie, nonni e nipotini sono seduti vicino al chiosco ora chiuso. Intanto io cammino lungo il bagnasciuga e porto i miei calzoni all’altezza del ginocchio perché l’acqua non li bagni, inutilmente.
Finalmente raggiungo Lerici. Questo paese ha una vita lunga quanto l’estate, ma anche d’inverno c’è sempre qualche coppia che sale su per la scaletta e raggiunge il Castello per parlare, per pensare e ascoltare la voce del mare. Seguo anch’io questo itinerario, scoprendo piccole case graziose ed avvolte dalle bougainville. Sta per piovere, ma prima di tornare a casa non resisto alla tentazione di guardare il mare un’altra volta: non dal Castello, ma giù, più in basso, dov’è stata messa una ringhiera che segue la linea del promontorio. Sembra di essere aggrappati alla prua di una nave e non c’è nulla di più bello dei piccoli schizzi d’acqua che arrivano in volto, quando le onde s’infrangono sulla scogliera. Il respiro del mare in pochi istanti di una vita qualunque.
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Paese di Mare

Laggiù, dove il cielo abbraccia il mare nella linea offuscata e imprecisa dell’orizzonte, ora c’è solo uno sfondo opaco punteggiato da migliaia di fiocchi candidi.
La neve è bianca, il bianco è immobile e così silenzioso che sembra aver inghiottito il fragore della guerra.
E in tutto questo silenzio i pensieri si disperdono così piacevolmente che non mi accorgo neppure del tempo che passa.
Ma ciò è comprensibile dato che ora tutto è bianco e nulla si muove, a parte il mare, che infuria e ruggisce in mille gorgoglii, in mille onde.
Sembra che qui le lancette dell’orologio, che svetta sul campanile di San Lorenzo, si siano fermate.
Ma la violenza della guerra non si è fermata e i soldati continuano a morire, al fianco degli innocenti.
L’immacolato biancore della neve si macchia come di peccato con il sangue versato durante la battaglia.
Il vento sferza tra i carruggi, gemendo e lamentandosi, gridando e sospirando, quasi stesse partecipando al mio pensiero e si stesse mostrando stanco di tutta questa morte.
Mille flutti spumeggiano infondo alla scogliera e vengono sollevati fino al muraglione di San Pietro dal quale sono affacciata.
In questa striscia di parete di sasso ci sono diverse aperture, dalle quali s’intravedono squarci di cielo e di mare.
Quassù fa molto freddo, anche se il muro mi ripara un po’ dal vento.
Tuttavia non rinuncio ad affacciarmi dalla finestra di pietra per guardare il cielo bianco, screziato da filamenti grigiastri di nubi e il mare, una lastra plumbea, facilmente paragonabile ad uno specchio, se non fosse che la sua superficie è sovente deturpata dalle creste schiumose delle onde.
Decido di raggiungere la chiesa di san Pietro, proprio vicino al muraglione e discendo gli scalini sconnessi per raggiungere uno spiazzo piastrellato, coperto da un leggero strato di neve.
Da qui si vede l’isola Palmaria, circondata dagli scogli incappucciati di neve.
I fiocchi non smettono di cadere e continuano a volteggiare in delicate spirali che vengono rapite dalla veemenza dei flutti.
Cammino lungo lo spiazzo fino ad incontrare una leggera salita e alcuni gradini.
Finalmente raggiungo il piccolo portico della chiesa, che si affaccia sul mare con arcate delicate e colonne sciupate dal tempo e dalla salsedine.
L’architettura della chiesa è semplice e la pietra di cui è costruita è grezza e ruvida al tatto.
Torno indietro. Su un fianco dell’edificio c’è una scala che conduce ad una piccola terrazza proprio sopra il tetto. Mi avventuro sui gradini ripidi e stretti fino a raggiungere lo spiazzo, mentre la neve continua a vorticare insieme al vento, che sferza sul mio viso. Cerco con lo sguardo l’orizzonte, ma il cielo e il mare sembrano una cosa unica, fredda e bianca.
Mi avvicino al parapetto di pietra, sporgendomi per guardare il mare.
Sotto di me le onde s’infrangono violentemente sulla scogliera, che si protende per un tratto in avanti, andando poi ad immergersi sotto la superficie del mare.
Tutto è sbiadito dal candore che mi circonda e il gelo mi entra lentamente nelle ossa.
Cerco ancora la linea infondo al cielo, perché tutto questo bianco mi disorienta.
Provo a chiudere gli occhi, immaginando gli uomini che combattono nella neve e che tendono imboscate celati da questo bianco manto fatale.
Il rumore del mare diventa lontano e viene cancellato da quello delle detonazioni e degli spari.
La neve diventa rossa, e come fiume scorre accanto a corpi inermi.
Riapro bruscamente gli occhi come risvegliata da un incubo.
Intorno a me non più tuono di granate o scoppio di spari, ma solamente il brusio del mio sogno che mi rimbomba ancora nelle orecchie.
Ridiscendo dalla terrazza e cammino nello spiazzo sottostante.
Le mie orme si disegnano sulla coltre soffice, ma presto vengono cancellate dai fiocchi che cadono impetuosi.

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Meraviglia

Stavo seduta sul bagnasciuga a contemplare quella bellezza preziosa ed unica che ci offre il nostro pianeta:il mare.
Nell’aria si sentiva l’odore dell’acqua salmastra che mi riportava alla mente i bei momenti delle vacanze dell’anno scorso.
La sabbia finissima e impalpabile sulla quale stavo passeggiando era talmente morbida e soffice che sembrava di volare su una nuvola.
Ogni tanto trovavo bellissime conchiglie che le mareggiate avevano portato a riva che,accostandole all’orecchio,potevo sentire il dolce e lieve rumore del mare.
Gli scuri ed acuti scogli che facevano da cornice a quello splendido paradiso venivano”aggrediti” dalle onde in tempesta; infatti il vento tirava forte e nonostante fosse una bella giornata,all’orizzonte stavano salendo sempre più velocemente dei nuvolosi scuri.Il giorno prima si era scatenata una tempesta e la mattina dopo il mare era ancora molto mosso;sembrava come se il signore degli abissi incollerito con il Dio della volta celeste e volesse scatenarsi facendo infrangere le sue onde contro i suoi umili servitori,gli scogli,costretti a subire tutta la sua ira.
Ma il paesaggio marino è ancora più bello quando il mare è calmo e il sole si specchia nelle sue limpide acque,quando gli scogli acuti ed in impervi diventano lucidi e brillano alla luce solare.
Durante questi giorni molti pescatori,approfittando delle belle giornate,partono all’alba con i loro gusci di noce e la loro canna da pesca per pescare quei pesci che tranquilli nuotano tra le onde morbide mosse dalla leggera brezza marina.
Questo paesaggio però potrà durare nel tempo solo se non ci saranno persone incoscienti e sprovvedute che inquineranno,con sostanze tossiche questa splendida bellezza della natura,che ci offre un panorama impareggiabile che è impossibile immaginare con filmati e video…

Panatteri Valentina
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CARILLON DE LA MER

La spiaggia si estendeva fino all’orizzonte, dove brillava di bagliori dorati, sotto la luce dei raggi solari.
Un forestiero passeggiava da solo sulla sabbia incandescente.
Egli era interamente avvolto in un mantello scuro, che nascondeva tutto il suo corpo, a parte gli occhi stanchi.
Visibilmente provato dal lungo errare, il forestiero si fermò alcuni secondi presso uno dei tanti tralicci elettrici, che punteggiavano la spiaggia infinita, poi dopo la breve sosta, riprese la sua marcia.
Nessun rumore rompeva lo scoraggiante silenzio, ad eccezione del respiro pesante del giovane in preda all’affanno e all’attanagliante calura.
Sulla spiaggia bollente apparivano miraggi invitanti e allo stesso tempo irraggiungibili: pozze d’acqua che ad occhio parevano alla distanza di un centinaio di passi si rivelavano distanti metri e poi miglia.
Il forestiero ad un tratto si fermò e attirato da un oggetto semi nascosto dalla sabbia si chinò a raccoglierlo.
Si trattava di una grossa conchiglia.
Egli non si stupì del ritrovamento, ma il suo sguardo si fece ancora più stanco e triste di prima.
Un vento bollente sferzò su quella landa di sabbia che aveva più l’aria di un deserto che quella di una spiaggia, poi i pali elettrici iniziarono ad emettere un sinistro ronzio e il cielo si incupì di colpo.
Nuvole scurissime arrivavano direttamente da ovest.
Il forestiero si sedette sulla rena incandescente e, incurante del calore, si concentrò sull’oggetto appena trovato. Posò l’orecchio sul bordo smaltato della conchiglia, anche se sapeva benissimo che non avrebbe mai sentito il rumore del mare.
Percepì un lieve fruscio che echeggiava lungo la spirale all’interno della conchiglia:
nulla di lontanamente paragonabile al rumore delle onde.
In quel mare di spiaggia persino le conchiglie avevano scordato il rumore dei flutti spumeggianti.
Lentamente sulla rena si disegnarono le ombre immense delle nubi artificiali.
Le tempesta stava sorvolando la spiaggia e il brusio sempre più acuto dei tralicci elettrici ne era la prova inconfutabile.
Il forestiero dagli occhi stanchi depose accanto a sé la conchiglia e dopo aver frugato nella tasca, ne estrasse un gingillo di metallo da cui si dipartivano tre fili di rame, che penzolavano inermi.
L’oggetto di piccole dimensioni ricordava un portagioie, ma vicino ai tre fili c’era una strana sporgenza, rassomigliante ad una chiavetta d’ottone.
Il portagioie non era granché, l’unico elemento che gli conferiva un certo pregio era il bellissimo cammeo sul coperchio.
Il giovane contemplò quasi con aria di venerazione la scatolina metallica, poi ruotò la chiavetta d’ottone: il coperchio del gingillo si aprì grazie ad un automatismo e rivelò il display nascosto all’interno del carillon elettronico.
Nell’aria si diffuse un suono polifonico, che riproduceva il rumore delle onde.
Dal cielo cadde qualche goccia di pioggia.
Le nubi si muovevano rapidamente, sospinte dalle correnti elettriche create dai vari tralicci, diffusi su tutta la superficie terrestre.
Ormai degli oceani e dei mari non restavano che distese di rena, comparabili a deserti e gli unici specchi d’acqua ancora esistenti erano laghi artefatti.
Grazie ad essi venivano create nubi artificiali, che guidate dai campi elettrostatici si muovevano dovunque gli uomini desiderassero mandarle.
L’acqua scarseggiava e il numero degli esseri viventi era diminuito drasticamente.
Lo sviluppo dell’elettronica e dell’informatica avanzava pari passo con il decadimento, le carestie, la fame e la sete.
Il mondo ormai non era altro che una landa fredda e meccanizzata, ricca di metallo ed ecosistemi riprodotti artificialmente.
Il forestiero guardò le nubi ormai lontane, poi la spiaggia. Cercò di immaginare tutto l’azzurro del cielo ricoprire la distesa sabbiosa, ma non ci riuscì.
Non aveva mai visto il mare, non aveva mai sentito il rumore delle onde e quasi non poteva credere che tutto questo fosse mai esistito.
La pioggia aveva appena inumidito la spiaggia, che esalava vapori incandescenti.
Il forestiero riprese il suo cammino, mentre nella conchiglia risuonava ancora la melodia polifonica, lontano ricordo del mare.

Vergassola Jenny

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Il veliero affondato

Passeggiavo lungo la spiaggia mentre le onde si infrangevano sugli scogli che si trovavano alle sue spalle.
Ad un tratto, mentre osservava il tramonto che si rifletteva sul mare, in lontananza vide passare una barca: un tre alberi di legno e con gigantesche vele bianche.
Per ammirarla meglio stese sulla spiaggia il velo che aveva tra le mani e ci si sdraiò sopra.
Ad un tratto, mentre seguiva la barca nello splendore del tramonto, si ritrovò nelle profondità del mare, tra coralli e pesci variopinti.
Sbigottita, Elisa cercò di risalire in superficie per prendere fiato, ma si accorse subito che riusciva a respirare anche nell’acqua.
Allora cominciò ad esplorare le profondità del mare e a guardarsi intorno per assaporare tanta bellezza: coralli di ogni tipo, rocce dalla forma stranissima, colorate e alghe dalle forme più svariate.
Ad un tratto mentre nuotava, si trovò davanti ad una grossa nave, tutta coperta di muschio e licheni.
La ragazza, curiosa, non perse tempo e si infilò in una apertura che l’erosione del mare aveva provocato, nel fianco dell’imbarcazione.
All’interno vide quadri di ogni genere e tantissimi gioielli sparsi sul pavimento;
poche stanze, ma estremamente lussuose.
Peccato che tutte quelle belle cose fossero ormai rovinate dal mare.
La ragazza continuò il suo giro e si trovò nella cabina di comando. Quella stanza era piena di macchinari, leve e tante altre cose.
Stava per andarsene quando qualche cosa attirò la sua attenzione . sul timone c’era appoggiato un cappello , supponendo che fosse del capitano, lo prese e si accorse che all’interno c’era scritto qualche cosa, che però non riuscì a leggere perché era stato rovinato dall’acqua.
Cominciò a strofinare il palmo della mano sulla scritta e dopo un po’ riuscì a leggere :”Il CORMORANO”.
La ragazza riappoggiò il cappello e proseguì il suo giro. Dopo qualche metro entrò in un'altra stanza , anch’essa colma di oggetti stupendi, sparsi qua e là.
Uscita dalla barca, la ragazza notò qualcosa di luccicante che si trovava a qualche metro da lei.
Avvicinatasi, si accorse che era un medaglione ; lo aprì e trovò una foto di una donna e un uomo, lei con l’abito da sposa e lui con lo smoking.
Allora pensò che quella barca doveva appartenere ad una coppia che si era appena sposata e che era in viaggio di nozze, quando qualcosa aveva provocato l’affondamento.
Colpita da una forte emozione per quel sogno d’amore infranto, Elisa stava per piangere quando un forte rumore la scosse e lei si ritrovò sulla spiaggia, seduta sulla sabbia fredda e scura.
Il sole era tramontato e La Notte incombeva. Per lo più si stava avvicinando una tempesta.
Allora realizzò che era stato tutto un sogno.

Caliendo Arianna
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Nostalgia

Passeggiava lungo la spiaggia immersa nei suoi pensieri.
Avvicinandosi alla riva il viso le si era bagnato con gli spruzzi e i capelli erano scompigliati a causa del vento; ad un certo punto un’ onda gigantesca si infranse sul bagnasciuga bagnandole i piedi. L’acqua era fredda perché si stava avvicinando l’inverno. Secondo lei nulla era più bello di un tramonto autunnale in riva al mare, ma, quel giorno era particolarmente triste; le sue guance erano bagnate da lacrime che di tanto in tanto le scendevano dagli occhi.
La marea si stava alzando pian piano e grosse onde sbattevano sugli scogli provocando un rumore assordante ma lei con lo sguardo perso nel vuoto come se non esistesse niente intorno si sedette sulle rocce e vi rimase un’ora.
Tutti i pomeriggi assieme al suo fidanzato passeggiavano lungo la spiaggia parlando della giornata trascorsa, ma, quel giorno era sola…
Erano la classica “coppietta” che tutti i ragazzi invidiavano; andavano mano per mano in giro per il paese e si comportavano come se per loro non esistesse nessun altro sulla terra si, perché vivevano in un altro mondo, un mondo magico.
A farli ritornare con i piedi per terra fu una partenza inaspettata…lui doveva andare con la famiglia in America alla ricerca di lavoro e lei sarebbe rimasta al paese natio. Oggi per i ragazzi sarebbe facile vedersi anche se a dividerli c’è l’Oceano, ma a quei tempi una partenza significava un addio per sempre.

Finalmente la ragazza decise di ritornare a casa perché il vento si era fatto più freddo e, mentre passeggiava sul bagn-asciuga, un vetro le provocò un taglio nel piede. Lei si piegò per vedere cosa fosse e con grande meraviglia constatò che era una bottiglia; dentro c’erano un foglio e un anello con un piccolo brillante. L’aprì, si misurò l’anello e incredula vide che le andava a pennello. All’intero del biglietto c’era scritto:
“Sei una ragazza fantastica, sei il mio primo vero amore. Quando troverai questa bottiglia io sarò già partito ma l’anello che avevo intenzione di darti per il nostro secondo anno di fidanzamento lo devi conservare, così, ogni qual volta ti mancherò potrai toccarlo e io ti sarò più vicino.
Se dovessi descrivere il nostro amore e tutte le cose che abbiamo fatto insieme mi servirebbero infinite bottiglie: si, tesoro, perché il nostro amore è infinito.
Non ti dimenticherò mai anche se a separarci c’è l’Oceano ma ricorda
il mare separa i nostri corpi ma il nostro amore sarà eterno.”

Leggendo queste parole la ragazza si alzò in piedi e le lacrime che prima scendevano pian piano erano diventate incessanti tanto che aveva gli occhi appannati e barcollava sulla spiaggia perché non vedeva niente davanti a sé. Sentiva soltanto un grande vuoto nel cuore.
Stava soffrendo tanto e nessuno la poteva capire, nessuno poteva darle un conforto perché l’amore della sua vita era partito, partito. E non sarebbe più tornato.
Dopo alcuni minuti di pianto interrotto la giovane si riprese e andò verso casa dove ad attenderla c’erano i suoi genitori pronti, come potevano, curare una figlia malata d’amore.

Ferrarotti Elena

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Il regalo di Octavie

Come ogni mattina nella stanza filtrava la luce del sole, leggermente attenuata dai tendaggi candidi e come ogni mattina la sveglia strillava con la sua acuta voce metallica.
Sul guanciale stropicciato si riversava scompigliata una chioma di capelli corvini, che rifulgevano appena sotto i timidi raggi dell’alba.
Len, con il viso affondato nel cuscino, cercò furiosamente la sveglia sul comodino e la zittì con un colpo secco.
La mattina iniziava con tutte le sfumature che ogni altra mattina presentava e quella monotonia non faceva che accrescere il senso di vuoto di Len.
La giovane si preparò in fretta e scese nell’ampia cucina per consumare la colazione. Sulla tovaglia bianca, ordinatamente apparecchiata, erano adagiate due tazze vuote e un quotidiano distrattamente abbandonato, aperto ad una pagina di economia.
Len si accomodò alla tavola, mentre un maggiordomo sulla cinquantina le porgeva una tazza pulita e una teiera fumante.
« Dove sono i miei genitori?» domandò Len con aria distaccata.
« Hanno detto che l’avrebbero aspettata in auto» rispose l’uomo con il solito atteggiamento rispettoso.
Len sorseggiò la bevanda calda poi, sempre in perfetto silenzio, tornò nella sua stanza e terminò di prepararsi.
In fretta e furia scese nuovamente le scale e uscì sbattendo il portone d’ingresso. Fuori l’accolse il singhiozzato rombo del motore. Un auto nera e splendente l’attendeva, aspettava solo lei.
Len salì in macchina e richiuse rumorosamente lo sportello, mentre le ruote stridevano sull’asfalto e il veicolo si allontanava velocemente dalla villa.
Gli occhi delle persone sul marciapiede correvano alle linee precise e al colore brillante dell’auto, mente oltre il vetro del finestrino si scorgeva indistintamente una piccola figura di ragazza, la cui pelle era resa di un colore ancora più pallido e slavato dallo spesso finestrino.
Ad incentivare il contrasto e ad evidenziare quella carnagione così chiara era sicuramente l’abbigliamento scuro che indossava sempre.
« Len dovresti iniziare ad indossare abiti decenti! Dovresti smetterla di infilarti questi stracci! Sembri una poveraccia!»
La giovane alzò il viso verso la madre, che si era voltata verso di lei. Lo sguardo di Len era reso ancora più aggressivo dal nero della matita con la quale aveva contornato gli occhi.
La ragazza iniziò a giocherellare con le frange dei jeans, strappati sotto il ginocchio, senza ascoltare le assillanti prediche della madre.
« Io sono arrivata!» fece notare Len al padre, che stava alla guida.
Con un balzo scese dalla macchina e si avvicinò alla scuola. Di fronte all’ingresso, seduti su una ringhiera stavano una schiera di giovani.
Len si avvicinò ad alcuni ragazzi. Uno di loro scese dalla ringhiera sulla quale era seduto e si avvicinò a lei « Bene, bene…la nostra principessina è arrivata» disse togliendo la sigaretta dalla bocca.
« Smettila…» gli strappò la sigaretta dalla mano « …non chiamarmi in quel modo! Per quanto mi riguarda non ho scelto di essere figlia di due benestanti…» portò il mozzicone alle labbra.
Il ragazzo le diede una pacca sulla spalla « Stavo solo scherzando…»
Ad un tratto la loro attenzione venne attirata da una ragazza minuta ed esile che passava accanto a loro. Indossava abiti semplici, ma graziosi.
Il ragazzo accanto a Len accennò una mezza frase « E’ quella nuova…»
« Già! Avevano detto che sarebbe arrivata una nuova compagna di classe!» aggiunse un’altra ragazza.
« In questa scuola privata…una come quella? Sembra una ragazza di campagna!» l’apostrofò il giovane.
Len non diede peso a quell’affermazione e si limitò a fissare quella ragazzina, insignificante agli occhi di tutti.
« A proposito Len…» riprese il giovane «…sabato sera c’è una festa! Ci saremo tutti! Non puoi mancare» Len annuì e gettò a terra il mozzicone.
Improvvisamente si udì il suono sommesso della campanella: i ragazzi varcarono il portone d’ingresso e ognuno entrò nella rispettiva aula.
Passarono alcuni giorni e le mattine erano sempre uguali e monotone per Len, tuttavia ogni giorno che passava era sempre più incuriosita da quella ragazza nuova: notava che tutti i giorni all’uscita scappava di corsa, senza fermarsi a parlare, ne salutare nessuno.
Non era in classe sua, ma di certo non era difficile comprendere che non aveva amici, forse perché tutti la consideravano una ragazza povera, che non meritava di frequentare una scuola così prestigiosa.
E poi quei ragazzi, quel gruppetto bellicoso che perseguitava la nuova arrivata. Len ormai era convita che fosse colpa loro, che la seguissero tutti i giorni fuori dalla scuola per indispettirla e
prenderla in giro.
Un giorno Len decise di sincerarsi dei fatti che stavano accadendo. All’uscita decise di seguire la ragazza. La pedinò in silenzio, lei sembrava camminare tranquillamente, ma quando udì lo scalpiccio di passi dietro di lei si allarmò e guardò con aria terrorizzata Len. Con gli occhi colmi d’inquietudine prese a correre, ma Len fu più lesta e le afferrò il braccio.
« Ehi, ma dove scappi?»
« Lasciami! Lasciami! Ti prego non picchiarmi!»
« Picchiarti?»
« Non vuoi picchiarmi?»
« Sono per caso quei ragazzi laggiù che ti picchiano?» disse additando un gruppetto di giovani che si avvicinavano con aria minacciosa.
Uno di loro corse in contro alle ragazze « Bene, bene…anche tu vuoi punire questa stracciona?»
« Punire? Io non credo ci sia da punire nessuno! Questa ragazza non ha fatto del male a nessuno!» gli rispose Len con rabbia.
« Ehi, ma tu non sei Len? Proprio tu ti metti a difendere questa poveraccia?»
« Poveraccio sarai tu!» ribadì Len « Adesso vattene! Non hai più nulla da fare qui!»
Quello un po’ adirato, ma senza nessuna frase con cui ribattere, si allontanò « Solo perché lo dici tu Len…! »
La ragazzina guardò con gratitudine la giovane accorsa in suo aiuto.
« Tutto ok?» domandò Len.
« Si, grazie!»
« A proposito…Io sono Len!»
« Octavie, mi chiamo Octavie!»
Le due scambiarono qualche parola e Len constatò che era molto piacevole poter parlare con persone non ancora inebriate dal lusso e dallo sfarzo, persone che ti apprezzano per quello che sei dentro. Dopo quella chiacchierata si salutarono.
Len tornò a casa molto inquieta, aveva riflettuto molto sul fatto di essersi circondata di persone superficiali, che si soffermavano a guardare di chi era figlia o quanti soldi aveva in tasca, e ad aggravare questo suo stato d’animo si aggiunse la dichiarazione dei suoi genitori. Cercò di entrare senza farsi notare, ma tutto fu vano e sua madre la invitò a sedersi al tavolo con loro. La donna aveva un’aria così soddisfatta, ma ciò che aveva da dire di sicuro non avrebbe reso Len altrettanto felice « Tesoro, non immagini la bella notizia che ho da darti…» la ragazza stava accomodandosi sulla sedia e teneva lo sguardo basso «…sabato sera siamo invitati ad un ricevimento indetto dalla compagnia di assicurazioni di tuo padre!!! Non è magnifico? Ci saranno i più alti esponenti della società…!»
Len rabbrividì all’idea e si rattristò ancora di più per il fatto che no sarebbe potuta andare alla festa organizzata dai suoi amici « Ma sabato ho già un impegno!»
« Lo annullerai!» intervenne suo padre, lasciandola spiazzata per un istante.
« No, no e poi no!» Len non voleva saperne.
« Tu verrai a quel ricevimento e senza discutere! Piuttosto trovati un abito decente! Ma guardati…vai in giro come una stracciona! Cosa può pensare la gente?»
« Non mi importa quello che può pensare la gente! Non mi va di essere giudicata per come mi vesto…» la ragazza si rifugiò in camera sua. Tanto non avrebbe potuto opporsi, sarebbe dovuta andare a quel maledettissimo ricevimento.
Il giorno seguente c’era un’aria fresca ed il cielo era come velato da una fine veste di nubi.
Le lezioni erano finite e Octavie si stava allontanando da scuola, ma sussultò nel vedere un ombra indistinguibile appoggiata ad un albero. Cautamente si avvicinò e tirò un sospiro di sollievo quando riconobbe Len in quella sagoma.
La ragazza le si avvicinò « Ti stavo giusto aspettando!»
« Me?»
La giovane annuì « Oggi vengo a casa tua»
« Co…come scusa?»
« Avanti, andiamo! Dov’è che abiti?»
Octavie l’accompagnò sconsolatamente. Si vergognava molto a mostrare la sua casina semplice, semplice all’amica « E’ una casa molto piccola…e..e abbiamo un solo bagno…»
« Guarda che non vengo per prenderti in giro! Avrei bisogno di una collana! Per una festa…»
« Ma io…»
« Non temere. Me la dovresti solo prestare per una sera…»
« Ma io non ho belle collane…e poi sono quasi tutte false!»
Ben presto giunsero a casa di Octavie. C’era un’atmosfera calda e familiare. I genitori dell’amica erano gentili, semplici. Len rimase scossa, avrebbe voluto una vita così, lontana da tutto quello sfarzo a cui sentiva di non appartenere.
Octavie e Len si ritirarono nella cameretta della giovane, che tirò fuori un cofanetto e con voce tremante disse « Non sono belle come quelle che avrai tu…»
Len senza badare alle considerazioni della ragazza afferrò una collanina di perle « Vorrei questa! Posso prenderla?»
« Ma quelle non sono vere perle! Prendi piuttosto questa…» disse afferrando frettolosamente una catenina d’oro con un ciondolino appeso.
Len la guardò perplessa ed abbozzò un lieve sorriso « Non è detto che le perle che splendono maggiormente siano le più preziose…così come le persone ricche coperte di ori e diamanti siano le migliori…»
Octavie sorrise timidamente e le porse la collana « Allora…te la regalo!»
La giovane amica infilò la collana in tasca. La giornata trascorse spensieratamente e Len si sentì stranamente a sua agio a in quella casa, circondata da persone che le esprimevano sinceramente il loro affetto e calore.
Len rincasò tardi e scappò in camera, senza rivolgere uno sguardo ai suoi genitori. In quell’istante invidiava così tanto Octavie: lei aveva dei genitori che le volevano veramente bene e che la accettavano per quello che era e non per quello che appariva agli altri.
La sera del ricevimento arrivò tempestivamente e Len indossò un abito scuro, che si addiceva alla sua personalità ribelle. Sua madre non voleva che lo indossasse, ma la giovane non volle saperne e si presentò alla festa sfoggiando il suo vestitino nero.
Le persone si complimentavano con i suoi genitori e facevano notare com’era cresciuta, com’era diventata bella, tutte cose che probabilmente non pensavano.
Len si sentiva un po’ la principessa di quella noiosissima festa: adulata da tutti e resa partecipe di ogni discussione. Già, ma lei desiderava veramente quel trono di false lusinghe e ammirazione? No, infondo quel regno non era il suo.
Fuori dalle vetrate, nel buio della notte, cadeva una pioggia fina e silenziosa. Len si appiattì vicino ad una finestra ad ammirare il cielo bruno, senza stelle.
Fu un istante. Stanca di quella musica, di quelle voci petulanti, di tutta quella falsità Len si avvicinò di corsa all’ingresso. Sua madre cercò di fermarla, ma in quel vano tentativo riuscì solo a rompere la chiusura della collana, che cadde a terra.
« Era un regalo di Octavie!» nel colmo della furia, Len scappò fuori. Sua madre cercò di seguirla per fermarla. La pioggia si era fatta più intensa e fitta, i fanali delle auto rifulgevano nelle mille gocce e lo stridio delle ruote era un rumore lontano, che si confondeva con lo scroscio dell’acqua. Len era già in strada, corse a testa bassa, seguita dalla madre. Ma la sua fuga fu breve: una luce abbacinante la avvolse, accecò i suoi occhi. Un rumore fortissimo. Poi solo il rumore della pioggia e le grida di una madre.
Sull’asfalto bagnato era riverso il corpo di Len, travolta da un auto in corsa. La pozza di sangue andava mano a mano allargandosi e confondendosi con il minimo strato d’acqua che ricopriva la strada.

Passarono diversi giorni e a Octavie venne restituita la sua collana: se ne occupò la madre di Len personalmente.
Solo in un secondo momento la ragazza riuscì a spiegarsi le lacrime che rigavano il viso della donna.
Trascorsero diversi giorni e Octavie non volle saperne di uscire dalla sua stanza. Stava coricata nel suo letto, con il guanciale bagno di lacrime e gli occhi gonfi e lucidi.
Poi si decise ad uscire: cacciò in tasca la catenella e acquistò un mazzo di fiori, una composizione molto semplice. Quel giorno le strade erano semi deserte. Sullo sfondo autunnale svettava il cielo grigio e le piante spogliate dalla furia del vento. Quando Octavie giunse a destinazione si accorse di essere completamente sola. Si guardò intorno prima di chinarsi e deporre i fiori.
Davanti a lei si stagliava una lapide di marmo rosato, una costruzione sfarzosa ed imponente che recava il nome di Len. Octavie si sentì stringere il cuore nel vedere quel masso di pietra lussureggiante. Len non avrebbe voluto. A Len quello sarebbe piaciuto, quello non avrebbe mai fatto parte del suo mondo.
Octavie osservò ancora una attimo la tomba: erano state deposte corone di fiori e composizioni ammirevoli. La ragazza guardò con vergogna il suo mazzetto di rose bianche e si sentì sciogliere di fronte a tutta la bellezza di quei fiori adagiati sulla lapide.
Ma ad un tratto le parve di risentire la voce dell’amica, ricordò quella frase che le aveva detto giorni prima: “Non è detto che le perle che splendono maggiormente siano le più preziose…così come le persone ricche coperte di ori e diamanti siano le migliori…”
Octavie depose i fiori, poi sfilò la catenina dalla tasca. Le lacrime le rigavano le guance arrossate e la voce strozzata le uscì come un sibilo quasi incomprensibile, mentre posava la collana di perle sulla lapide «Ti avevo detto che era un regalo, Len»

Vergassola Jenny

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