…Mare
in tempesta…
Passeggiavo sulla spiaggia di sassi scuri, mentre
osservavo le onde infrangersi sugli scogli aguzzi, come un ariete
si scaglia sul suo avversario, poi tornare a lenirsi, come se
l’ariete fosse stato colpito e dolente si fosse accasciato
al suolo; ma come esso riprende le forze e caparbio si catapulta
ancora più forte di prima sul nemico che prontamente lo
respinge, anche le onde non si arrendono e testarde tentano invano
l’impresa di sormontare gli imponenti scogli, come fossero
mura di cinta, per approdare al castello e distruggerlo.
La loro impresa non è sempre un fallimento perché
le onde, quando sono fiancheggiate dal vento e dalle correnti
marine si gonfiano, spesso in proporzioni devastanti, si alzano
a dismisura, superando gli scogli e minacciando l’equilibrio
sulla spiaggia travolgendo con la loro mole le rocce e qualsiasi
cosa siano lungo la sua rotta.
Esse, nonostante l’infinita lotta e la loro orgogliosa morte,
si manifestano con singolare maestosità, esibendosi in
spettacolari acrobazie dopo aver urtato le rocce che delimitano
il confine tra mare e terra, sfidando la forza di gravità
e le leggi della fisica e creando spumeggianti e fantastiche coreografie.
Ma le onde non sono solo sinonimo di bellezza sconfinata, ma sono
spesso artefici di paesaggi desolanti o spiagge ricoperte interamente
da tronchi di legno e da detriti gettati in mare dall’uomo
e trasportati dalle correnti.
Allo stesso tempo il mare non ha solo il bello dei movimenti delle
onde e dei variopinti fondali, ma la mostruosità dell’inquinamento
e l’atrocità di essere un luogo di morte, non solo
per i naufraghi, ma per i gabbiani soffocati dal petrolio dopo
i disastri per l’affondamento di navi petrolifere.
A questo proposito bisogna considerare che il mare è pieno
di bellezze e doni come la vita e non bisogna sottovalutare la
sua importanza e salvaguardare il suo equilibrio naturale.
Armelloni Eliana

L'olio Solare
E’ estate. Sono appena arrivato sulla spiaggia,
stendo l’asciugamano e mi siedo; ma è ancora presto
sono circa le sette e mezza, non c’è ancora nessuno
tranne qualche pescatore vicino alla sua barca che aspetta gli
altri per iniziare una nuova giornata di pesca. Decido di alzarmi
per fare una passeggiata. Camminando guardo il mare, è
piatto come una tavola e c’è un silenzio straordinario.
Poi ritorno al mio asciugamano, mi ci sdraio sopra, chiudo gli
occhi e ascolto il suono provocato dalle piccole onde che sbattono
sulle pietre. Dopo un pò sono svegliato da un rumore di
passi, mi metto seduto e vedo che è una splendida ragazza.
Per un motivo banale inizio a conoscerla e lei fa altrettanto
con me. Dopo circa un quarto d’ora di conversazione si sdraia
a pancia in giù e mi chiede di metterle un po’ di
crema solare sulle spalle e sulle gambe. Dato che le mie orecchie
non volevano sentire altro, non dico neanche di sì prendo
subito l’olio solare me ne verso una quantità enorme
sulle mani e inizio a toccare-spalmare non solo spalle e gambe,
ma anche quasi tutto il resto. Poi tocca a me. Mi metto pancia
a terra e lei inizia a massaggiarmi con l’abbronzante, era
un cosa pazzesca ero su una spiaggia deserta da solo con una ragazza
fantastica, anche i pescatori erano andati via. Chiusi gli occhi
per qualche secondo. Sentii una mano sulla spalla e una voce che
mi chiamava: ma non sembrava affatto la sua. Infatti, quando aprii
gli occhi vidi la profe con una mano sulla mia spalla che cercava
di svegliarmi per interrogarmi in italiano. Era stato tutto un
sogno! La ragazza, il mare calmo, l’olio solare,perfino
i pescatori…
Lauro Francesco

IL
BATTESIMO DEL MARE
Finalmente, il giorno sospirato tutto l' anno è
arrivato!Le valigie sono pronte, il sole splende nel cielo e io
respiro aria di vacanze.
Sono le sette di mattina, aspetto con impazienza il gruppo di
amici, con cui ho deciso di trascorrere due lunghe settimane sulle
splendide spiagge di Sharm el Sheikh, sul Mar Rosso.
Ecco il clacson, l' ultimo bacio a mia madre, che sicuramente
passerà quindici giorni d' ansia e le ultime raccomandazioni
a quel "maschiaccio" di mia sorella e via...............verso
l'aereoporto di Pisa.
Il viaggio è stato molto piacevole ed ora finalmente siamo
arrivati.Il posto è splendido, il mare, che è l'
elemento della natura che più amo, è molto più
che meraviglioso: guardarlo mi emoziona talmente tanto da togliermi
il respiro.
Ho deciso, all'insaputa di mia madre, alla quale al solo pensiero
verrebbe un collasso, di fare il battesimo del mare. Domani, con
istruttori esperti, poco lontano dalla costa, insieme ad altri
miei due amici, mi immergerò per la prima volta della mia
vita.
L' idea mi affascina e allo stesso tempo mi terrorizza, ma ormai
ho deciso e per nessuna ragione al mondo mi tirerò indietro.
Ho trascorso una notte tranquilla ed ora eccomi qui pronto al
grande evento, mi tremano un pò le gambe ed ho il respiro
leggermente accellerato, ma non sarà di certo questo a
fermarmi.
Sono sott' acqua, mi invade una sensazione meravigliosa ed il
panico di poco fa lascia campo libero ad una calma quasi innaturale
che non ho mai provato. Lo scenario è meraviglioso, ci
sono pesci variopinti e di varie misure che mi nuotano accanto.
Ad un certo punto, poco distante da noi, un' ombra minacciosa
si avvicina: è uno squalo, non molto grande, ma pur sempre
uno squalo; gli istruttori ci fanno cenno di nuotare il più
velocemente possibile verso il motoscafo.
Ma è più facile a dirsi che a farsi, la paura ora
è tanta.
Lo squalo si avvicina rapidamente e passandomi vicino, recide
il tubo che collega la mia maschera alla bombola di ossigeno,
cerco di risalire, ma troppo velocemente, mi si annebbia la vista,
mi fischiano le orecchie, sto per svenire quando ecco una coppia
di delfini mi si affianca e uno di loro si scaglia contro lo squalo.
Mentre uno dei delfini mette in fuga lo squalo, l' altro mi si
avvicina ed io riesco ad aggrapparmi alla sua pinna dorsale e
così risalgo in superficie.
E' stata un' esperienza terribile.Il mio battesimo del mare non
è andato esattamente come avevo previsto.Ma due esseri
meravigliosi, dagli occhi dolcissimi, mi hanno permesso di essere
qui ora, a poter raccontarlo.

Respiro del Mare
Stavo camminando lungo la spiaggia; il giorno prima
era iniziata la scuola e io pensavo ai bei giorni trascorsi al
mare con gli amici in un posto ormai per me sacro: Vieste, in
Puglia, dove di giorno si andava alla spiaggia del Pizzomunno
e la sera in Piazzetta Petrone a guardare film come “Gallo
Cedrone” e attendere l’arrivo del protagonista Carlo
Verdone per chiedere un autografo o fare una foto con lui. Ma
questi sono ormai solo ricordi. Ora sono qui e cammino lungo la
spiaggia di S. Terenzo. Il cielo è nuvoloso ma l’aria
è tiepida, non ho nulla da fare. Un anziano signore si
rivolge a me gridando : “ Giovine tuffati, che ancora puoi!”.
Io sorridendo dico che non posso perché non ho un costume.
Lascio questa spiaggia per raggiungerne un’altra, la “Venere”.
Qui sembra che il mare si sia stancato di risplendere e di tacere;
le onde sono alte, i surfisti molti e irrequieti, la spiaggia
è ormai inghiottita dalle onde. Alcune famiglie, nonni
e nipotini sono seduti vicino al chiosco ora chiuso. Intanto io
cammino lungo il bagnasciuga e porto i miei calzoni all’altezza
del ginocchio perché l’acqua non li bagni, inutilmente.
Finalmente raggiungo Lerici. Questo paese ha una vita lunga quanto
l’estate, ma anche d’inverno c’è sempre
qualche coppia che sale su per la scaletta e raggiunge il Castello
per parlare, per pensare e ascoltare la voce del mare. Seguo anch’io
questo itinerario, scoprendo piccole case graziose ed avvolte
dalle bougainville. Sta per piovere, ma prima di tornare a casa
non resisto alla tentazione di guardare il mare un’altra
volta: non dal Castello, ma giù, più in basso, dov’è
stata messa una ringhiera che segue la linea del promontorio.
Sembra di essere aggrappati alla prua di una nave e non c’è
nulla di più bello dei piccoli schizzi d’acqua che
arrivano in volto, quando le onde s’infrangono sulla scogliera.
Il respiro del mare in pochi istanti di una vita qualunque.
. 
Paese di
Mare
Laggiù, dove il cielo abbraccia il mare nella
linea offuscata e imprecisa dell’orizzonte, ora c’è
solo uno sfondo opaco punteggiato da migliaia di fiocchi candidi.
La neve è bianca, il bianco è immobile e così
silenzioso che sembra aver inghiottito il fragore della guerra.
E in tutto questo silenzio i pensieri si disperdono così
piacevolmente che non mi accorgo neppure del tempo che passa.
Ma ciò è comprensibile dato che ora tutto è
bianco e nulla si muove, a parte il mare, che infuria e ruggisce
in mille gorgoglii, in mille onde.
Sembra che qui le lancette dell’orologio, che svetta sul
campanile di San Lorenzo, si siano fermate.
Ma la violenza della guerra non si è fermata e i soldati
continuano a morire, al fianco degli innocenti.
L’immacolato biancore della neve si macchia come di peccato
con il sangue versato durante la battaglia.
Il vento sferza tra i carruggi, gemendo e lamentandosi, gridando
e sospirando, quasi stesse partecipando al mio pensiero e si stesse
mostrando stanco di tutta questa morte.
Mille flutti spumeggiano infondo alla scogliera e vengono sollevati
fino al muraglione di San Pietro dal quale sono affacciata.
In questa striscia di parete di sasso ci sono diverse aperture,
dalle quali s’intravedono squarci di cielo e di mare.
Quassù fa molto freddo, anche se il muro mi ripara un po’
dal vento.
Tuttavia non rinuncio ad affacciarmi dalla finestra di pietra
per guardare il cielo bianco, screziato da filamenti grigiastri
di nubi e il mare, una lastra plumbea, facilmente paragonabile
ad uno specchio, se non fosse che la sua superficie è sovente
deturpata dalle creste schiumose delle onde.
Decido di raggiungere la chiesa di san Pietro, proprio vicino
al muraglione e discendo gli scalini sconnessi per raggiungere
uno spiazzo piastrellato, coperto da un leggero strato di neve.
Da qui si vede l’isola Palmaria, circondata dagli scogli
incappucciati di neve.
I fiocchi non smettono di cadere e continuano a volteggiare in
delicate spirali che vengono rapite dalla veemenza dei flutti.
Cammino lungo lo spiazzo fino ad incontrare una leggera salita
e alcuni gradini.
Finalmente raggiungo il piccolo portico della chiesa, che si affaccia
sul mare con arcate delicate e colonne sciupate dal tempo e dalla
salsedine.
L’architettura della chiesa è semplice e la pietra
di cui è costruita è grezza e ruvida al tatto.
Torno indietro. Su un fianco dell’edificio c’è
una scala che conduce ad una piccola terrazza proprio sopra il
tetto. Mi avventuro sui gradini ripidi e stretti fino a raggiungere
lo spiazzo, mentre la neve continua a vorticare insieme al vento,
che sferza sul mio viso. Cerco con lo sguardo l’orizzonte,
ma il cielo e il mare sembrano una cosa unica, fredda e bianca.
Mi avvicino al parapetto di pietra, sporgendomi per guardare il
mare.
Sotto di me le onde s’infrangono violentemente sulla scogliera,
che si protende per un tratto in avanti, andando poi ad immergersi
sotto la superficie del mare.
Tutto è sbiadito dal candore che mi circonda e il gelo
mi entra lentamente nelle ossa.
Cerco ancora la linea infondo al cielo, perché tutto questo
bianco mi disorienta.
Provo a chiudere gli occhi, immaginando gli uomini che combattono
nella neve e che tendono imboscate celati da questo bianco manto
fatale.
Il rumore del mare diventa lontano e viene cancellato da quello
delle detonazioni e degli spari.
La neve diventa rossa, e come fiume scorre accanto a corpi inermi.
Riapro bruscamente gli occhi come risvegliata da un incubo.
Intorno a me non più tuono di granate o scoppio di spari,
ma solamente il brusio del mio sogno che mi rimbomba ancora nelle
orecchie.
Ridiscendo dalla terrazza e cammino nello spiazzo sottostante.
Le mie orme si disegnano sulla coltre soffice, ma presto vengono
cancellate dai fiocchi che cadono impetuosi.

Meraviglia
Stavo seduta sul bagnasciuga a contemplare quella
bellezza preziosa ed unica che ci offre il nostro pianeta:il mare.
Nell’aria si sentiva l’odore dell’acqua salmastra
che mi riportava alla mente i bei momenti delle vacanze dell’anno
scorso.
La sabbia finissima e impalpabile sulla quale stavo passeggiando
era talmente morbida e soffice che sembrava di volare su una nuvola.
Ogni tanto trovavo bellissime conchiglie che le mareggiate avevano
portato a riva che,accostandole all’orecchio,potevo sentire
il dolce e lieve rumore del mare.
Gli scuri ed acuti scogli che facevano da cornice a quello splendido
paradiso venivano”aggrediti” dalle onde in tempesta;
infatti il vento tirava forte e nonostante fosse una bella giornata,all’orizzonte
stavano salendo sempre più velocemente dei nuvolosi scuri.Il
giorno prima si era scatenata una tempesta e la mattina dopo il
mare era ancora molto mosso;sembrava come se il signore degli
abissi incollerito con il Dio della volta celeste e volesse scatenarsi
facendo infrangere le sue onde contro i suoi umili servitori,gli
scogli,costretti a subire tutta la sua ira.
Ma il paesaggio marino è ancora più bello quando
il mare è calmo e il sole si specchia nelle sue limpide
acque,quando gli scogli acuti ed in impervi diventano lucidi e
brillano alla luce solare.
Durante questi giorni molti pescatori,approfittando delle belle
giornate,partono all’alba con i loro gusci di noce e la
loro canna da pesca per pescare quei pesci che tranquilli nuotano
tra le onde morbide mosse dalla leggera brezza marina.
Questo paesaggio però potrà durare nel tempo solo
se non ci saranno persone incoscienti e sprovvedute che inquineranno,con
sostanze tossiche questa splendida bellezza della natura,che ci
offre un panorama impareggiabile che è impossibile immaginare
con filmati e video…
Panatteri Valentina

CARILLON
DE LA MER
La spiaggia si estendeva fino all’orizzonte,
dove brillava di bagliori dorati, sotto la luce dei raggi solari.
Un forestiero passeggiava da solo sulla sabbia incandescente.
Egli era interamente avvolto in un mantello scuro, che nascondeva
tutto il suo corpo, a parte gli occhi stanchi.
Visibilmente provato dal lungo errare, il forestiero si fermò
alcuni secondi presso uno dei tanti tralicci elettrici, che punteggiavano
la spiaggia infinita, poi dopo la breve sosta, riprese la sua
marcia.
Nessun rumore rompeva lo scoraggiante silenzio, ad eccezione del
respiro pesante del giovane in preda all’affanno e all’attanagliante
calura.
Sulla spiaggia bollente apparivano miraggi invitanti e allo stesso
tempo irraggiungibili: pozze d’acqua che ad occhio parevano
alla distanza di un centinaio di passi si rivelavano distanti
metri e poi miglia.
Il forestiero ad un tratto si fermò e attirato da un oggetto
semi nascosto dalla sabbia si chinò a raccoglierlo.
Si trattava di una grossa conchiglia.
Egli non si stupì del ritrovamento, ma il suo sguardo si
fece ancora più stanco e triste di prima.
Un vento bollente sferzò su quella landa di sabbia che
aveva più l’aria di un deserto che quella di una
spiaggia, poi i pali elettrici iniziarono ad emettere un sinistro
ronzio e il cielo si incupì di colpo.
Nuvole scurissime arrivavano direttamente da ovest.
Il forestiero si sedette sulla rena incandescente e, incurante
del calore, si concentrò sull’oggetto appena trovato.
Posò l’orecchio sul bordo smaltato della conchiglia,
anche se sapeva benissimo che non avrebbe mai sentito il rumore
del mare.
Percepì un lieve fruscio che echeggiava lungo la spirale
all’interno della conchiglia:
nulla di lontanamente paragonabile al rumore delle onde.
In quel mare di spiaggia persino le conchiglie avevano scordato
il rumore dei flutti spumeggianti.
Lentamente sulla rena si disegnarono le ombre immense delle nubi
artificiali.
Le tempesta stava sorvolando la spiaggia e il brusio sempre più
acuto dei tralicci elettrici ne era la prova inconfutabile.
Il forestiero dagli occhi stanchi depose accanto a sé la
conchiglia e dopo aver frugato nella tasca, ne estrasse un gingillo
di metallo da cui si dipartivano tre fili di rame, che penzolavano
inermi.
L’oggetto di piccole dimensioni ricordava un portagioie,
ma vicino ai tre fili c’era una strana sporgenza, rassomigliante
ad una chiavetta d’ottone.
Il portagioie non era granché, l’unico elemento che
gli conferiva un certo pregio era il bellissimo cammeo sul coperchio.
Il giovane contemplò quasi con aria di venerazione la scatolina
metallica, poi ruotò la chiavetta d’ottone: il coperchio
del gingillo si aprì grazie ad un automatismo e rivelò
il display nascosto all’interno del carillon elettronico.
Nell’aria si diffuse un suono polifonico, che riproduceva
il rumore delle onde.
Dal cielo cadde qualche goccia di pioggia.
Le nubi si muovevano rapidamente, sospinte dalle correnti elettriche
create dai vari tralicci, diffusi su tutta la superficie terrestre.
Ormai degli oceani e dei mari non restavano che distese di rena,
comparabili a deserti e gli unici specchi d’acqua ancora
esistenti erano laghi artefatti.
Grazie ad essi venivano create nubi artificiali, che guidate dai
campi elettrostatici si muovevano dovunque gli uomini desiderassero
mandarle.
L’acqua scarseggiava e il numero degli esseri viventi era
diminuito drasticamente.
Lo sviluppo dell’elettronica e dell’informatica avanzava
pari passo con il decadimento, le carestie, la fame e la sete.
Il mondo ormai non era altro che una landa fredda e meccanizzata,
ricca di metallo ed ecosistemi riprodotti artificialmente.
Il forestiero guardò le nubi ormai lontane, poi la spiaggia.
Cercò di immaginare tutto l’azzurro del cielo ricoprire
la distesa sabbiosa, ma non ci riuscì.
Non aveva mai visto il mare, non aveva mai sentito il rumore delle
onde e quasi non poteva credere che tutto questo fosse mai esistito.
La pioggia aveva appena inumidito la spiaggia, che esalava vapori
incandescenti.
Il forestiero riprese il suo cammino, mentre nella conchiglia
risuonava ancora la melodia polifonica, lontano ricordo del mare.
Vergassola Jenny

Il veliero affondato
Passeggiavo lungo la spiaggia mentre le onde si
infrangevano sugli scogli che si trovavano alle sue spalle.
Ad un tratto, mentre osservava il tramonto che si rifletteva sul
mare, in lontananza vide passare una barca: un tre alberi di legno
e con gigantesche vele bianche.
Per ammirarla meglio stese sulla spiaggia il velo che aveva tra
le mani e ci si sdraiò sopra.
Ad un tratto, mentre seguiva la barca nello splendore del tramonto,
si ritrovò nelle profondità del mare, tra coralli
e pesci variopinti.
Sbigottita, Elisa cercò di risalire in superficie per prendere
fiato, ma si accorse subito che riusciva a respirare anche nell’acqua.
Allora cominciò ad esplorare le profondità del mare
e a guardarsi intorno per assaporare tanta bellezza: coralli di
ogni tipo, rocce dalla forma stranissima, colorate e alghe dalle
forme più svariate.
Ad un tratto mentre nuotava, si trovò davanti ad una grossa
nave, tutta coperta di muschio e licheni.
La ragazza, curiosa, non perse tempo e si infilò in una
apertura che l’erosione del mare aveva provocato, nel fianco
dell’imbarcazione.
All’interno vide quadri di ogni genere e tantissimi gioielli
sparsi sul pavimento;
poche stanze, ma estremamente lussuose.
Peccato che tutte quelle belle cose fossero ormai rovinate dal
mare.
La ragazza continuò il suo giro e si trovò nella
cabina di comando. Quella stanza era piena di macchinari, leve
e tante altre cose.
Stava per andarsene quando qualche cosa attirò la sua attenzione
. sul timone c’era appoggiato un cappello , supponendo che
fosse del capitano, lo prese e si accorse che all’interno
c’era scritto qualche cosa, che però non riuscì
a leggere perché era stato rovinato dall’acqua.
Cominciò a strofinare il palmo della mano sulla scritta
e dopo un po’ riuscì a leggere :”Il CORMORANO”.
La ragazza riappoggiò il cappello e proseguì il
suo giro. Dopo qualche metro entrò in un'altra stanza ,
anch’essa colma di oggetti stupendi, sparsi qua e là.
Uscita dalla barca, la ragazza notò qualcosa di luccicante
che si trovava a qualche metro da lei.
Avvicinatasi, si accorse che era un medaglione ; lo aprì
e trovò una foto di una donna e un uomo, lei con l’abito
da sposa e lui con lo smoking.
Allora pensò che quella barca doveva appartenere ad una
coppia che si era appena sposata e che era in viaggio di nozze,
quando qualcosa aveva provocato l’affondamento.
Colpita da una forte emozione per quel sogno d’amore infranto,
Elisa stava per piangere quando un forte rumore la scosse e lei
si ritrovò sulla spiaggia, seduta sulla sabbia fredda e
scura.
Il sole era tramontato e La Notte incombeva. Per lo più
si stava avvicinando una tempesta.
Allora realizzò che era stato tutto un sogno.
Caliendo Arianna

Nostalgia
Passeggiava lungo la spiaggia immersa nei suoi pensieri.
Avvicinandosi alla riva il viso le si era bagnato con gli spruzzi
e i capelli erano scompigliati a causa del vento; ad un certo
punto un’ onda gigantesca si infranse sul bagnasciuga bagnandole
i piedi. L’acqua era fredda perché si stava avvicinando
l’inverno. Secondo lei nulla era più bello di un
tramonto autunnale in riva al mare, ma, quel giorno era particolarmente
triste; le sue guance erano bagnate da lacrime che di tanto in
tanto le scendevano dagli occhi.
La marea si stava alzando pian piano e grosse onde sbattevano
sugli scogli provocando un rumore assordante ma lei con lo sguardo
perso nel vuoto come se non esistesse niente intorno si sedette
sulle rocce e vi rimase un’ora.
Tutti i pomeriggi assieme al suo fidanzato passeggiavano lungo
la spiaggia parlando della giornata trascorsa, ma, quel giorno
era sola…
Erano la classica “coppietta” che tutti i ragazzi
invidiavano; andavano mano per mano in giro per il paese e si
comportavano come se per loro non esistesse nessun altro sulla
terra si, perché vivevano in un altro mondo, un mondo magico.
A farli ritornare con i piedi per terra fu una partenza inaspettata…lui
doveva andare con la famiglia in America alla ricerca di lavoro
e lei sarebbe rimasta al paese natio. Oggi per i ragazzi sarebbe
facile vedersi anche se a dividerli c’è l’Oceano,
ma a quei tempi una partenza significava un addio per sempre.
Finalmente la ragazza decise di ritornare a casa
perché il vento si era fatto più freddo e, mentre
passeggiava sul bagn-asciuga, un vetro le provocò un taglio
nel piede. Lei si piegò per vedere cosa fosse e con grande
meraviglia constatò che era una bottiglia; dentro c’erano
un foglio e un anello con un piccolo brillante. L’aprì,
si misurò l’anello e incredula vide che le andava
a pennello. All’intero del biglietto c’era scritto:
“Sei una ragazza fantastica, sei il mio primo vero amore.
Quando troverai questa bottiglia io sarò già partito
ma l’anello che avevo intenzione di darti per il nostro
secondo anno di fidanzamento lo devi conservare, così,
ogni qual volta ti mancherò potrai toccarlo e io ti sarò
più vicino.
Se dovessi descrivere il nostro amore e tutte le cose che abbiamo
fatto insieme mi servirebbero infinite bottiglie: si, tesoro,
perché il nostro amore è infinito.
Non ti dimenticherò mai anche se a separarci c’è
l’Oceano ma ricorda
il mare separa i nostri corpi ma il nostro amore sarà eterno.”
Leggendo queste parole la ragazza si alzò
in piedi e le lacrime che prima scendevano pian piano erano diventate
incessanti tanto che aveva gli occhi appannati e barcollava sulla
spiaggia perché non vedeva niente davanti a sé.
Sentiva soltanto un grande vuoto nel cuore.
Stava soffrendo tanto e nessuno la poteva capire, nessuno poteva
darle un conforto perché l’amore della sua vita era
partito, partito. E non sarebbe più tornato.
Dopo alcuni minuti di pianto interrotto la giovane si riprese
e andò verso casa dove ad attenderla c’erano i suoi
genitori pronti, come potevano, curare una figlia malata d’amore.
Ferrarotti Elena

Il regalo di Octavie
Come ogni mattina nella stanza filtrava la luce
del sole, leggermente attenuata dai tendaggi candidi e come ogni
mattina la sveglia strillava con la sua acuta voce metallica.
Sul guanciale stropicciato si riversava scompigliata una chioma
di capelli corvini, che rifulgevano appena sotto i timidi raggi
dell’alba.
Len, con il viso affondato nel cuscino, cercò furiosamente
la sveglia sul comodino e la zittì con un colpo secco.
La mattina iniziava con tutte le sfumature che ogni altra mattina
presentava e quella monotonia non faceva che accrescere il senso
di vuoto di Len.
La giovane si preparò in fretta e scese nell’ampia
cucina per consumare la colazione. Sulla tovaglia bianca, ordinatamente
apparecchiata, erano adagiate due tazze vuote e un quotidiano
distrattamente abbandonato, aperto ad una pagina di economia.
Len si accomodò alla tavola, mentre un maggiordomo sulla
cinquantina le porgeva una tazza pulita e una teiera fumante.
« Dove sono i miei genitori?» domandò Len con
aria distaccata.
« Hanno detto che l’avrebbero aspettata in auto»
rispose l’uomo con il solito atteggiamento rispettoso.
Len sorseggiò la bevanda calda poi, sempre in perfetto
silenzio, tornò nella sua stanza e terminò di prepararsi.
In fretta e furia scese nuovamente le scale e uscì sbattendo
il portone d’ingresso. Fuori l’accolse il singhiozzato
rombo del motore. Un auto nera e splendente l’attendeva,
aspettava solo lei.
Len salì in macchina e richiuse rumorosamente lo sportello,
mentre le ruote stridevano sull’asfalto e il veicolo si
allontanava velocemente dalla villa.
Gli occhi delle persone sul marciapiede correvano alle linee precise
e al colore brillante dell’auto, mente oltre il vetro del
finestrino si scorgeva indistintamente una piccola figura di ragazza,
la cui pelle era resa di un colore ancora più pallido e
slavato dallo spesso finestrino.
Ad incentivare il contrasto e ad evidenziare quella carnagione
così chiara era sicuramente l’abbigliamento scuro
che indossava sempre.
« Len dovresti iniziare ad indossare abiti decenti! Dovresti
smetterla di infilarti questi stracci! Sembri una poveraccia!»
La giovane alzò il viso verso la madre, che si era voltata
verso di lei. Lo sguardo di Len era reso ancora più aggressivo
dal nero della matita con la quale aveva contornato gli occhi.
La ragazza iniziò a giocherellare con le frange dei jeans,
strappati sotto il ginocchio, senza ascoltare le assillanti prediche
della madre.
« Io sono arrivata!» fece notare Len al padre, che
stava alla guida.
Con un balzo scese dalla macchina e si avvicinò alla scuola.
Di fronte all’ingresso, seduti su una ringhiera stavano
una schiera di giovani.
Len si avvicinò ad alcuni ragazzi. Uno di loro scese dalla
ringhiera sulla quale era seduto e si avvicinò a lei «
Bene, bene…la nostra principessina è arrivata»
disse togliendo la sigaretta dalla bocca.
« Smettila…» gli strappò la sigaretta
dalla mano « …non chiamarmi in quel modo! Per quanto
mi riguarda non ho scelto di essere figlia di due benestanti…»
portò il mozzicone alle labbra.
Il ragazzo le diede una pacca sulla spalla « Stavo solo
scherzando…»
Ad un tratto la loro attenzione venne attirata da una ragazza
minuta ed esile che passava accanto a loro. Indossava abiti semplici,
ma graziosi.
Il ragazzo accanto a Len accennò una mezza frase «
E’ quella nuova…»
« Già! Avevano detto che sarebbe arrivata una nuova
compagna di classe!» aggiunse un’altra ragazza.
« In questa scuola privata…una come quella? Sembra
una ragazza di campagna!» l’apostrofò il giovane.
Len non diede peso a quell’affermazione e si limitò
a fissare quella ragazzina, insignificante agli occhi di tutti.
« A proposito Len…» riprese il giovane «…sabato
sera c’è una festa! Ci saremo tutti! Non puoi mancare»
Len annuì e gettò a terra il mozzicone.
Improvvisamente si udì il suono sommesso della campanella:
i ragazzi varcarono il portone d’ingresso e ognuno entrò
nella rispettiva aula.
Passarono alcuni giorni e le mattine erano sempre uguali e monotone
per Len, tuttavia ogni giorno che passava era sempre più
incuriosita da quella ragazza nuova: notava che tutti i giorni
all’uscita scappava di corsa, senza fermarsi a parlare,
ne salutare nessuno.
Non era in classe sua, ma di certo non era difficile comprendere
che non aveva amici, forse perché tutti la consideravano
una ragazza povera, che non meritava di frequentare una scuola
così prestigiosa.
E poi quei ragazzi, quel gruppetto bellicoso che perseguitava
la nuova arrivata. Len ormai era convita che fosse colpa loro,
che la seguissero tutti i giorni fuori dalla scuola per indispettirla
e
prenderla in giro.
Un giorno Len decise di sincerarsi dei fatti che stavano accadendo.
All’uscita decise di seguire la ragazza. La pedinò
in silenzio, lei sembrava camminare tranquillamente, ma quando
udì lo scalpiccio di passi dietro di lei si allarmò
e guardò con aria terrorizzata Len. Con gli occhi colmi
d’inquietudine prese a correre, ma Len fu più lesta
e le afferrò il braccio.
« Ehi, ma dove scappi?»
« Lasciami! Lasciami! Ti prego non picchiarmi!»
« Picchiarti?»
« Non vuoi picchiarmi?»
« Sono per caso quei ragazzi laggiù che ti picchiano?»
disse additando un gruppetto di giovani che si avvicinavano con
aria minacciosa.
Uno di loro corse in contro alle ragazze « Bene, bene…anche
tu vuoi punire questa stracciona?»
« Punire? Io non credo ci sia da punire nessuno! Questa
ragazza non ha fatto del male a nessuno!» gli rispose Len
con rabbia.
« Ehi, ma tu non sei Len? Proprio tu ti metti a difendere
questa poveraccia?»
« Poveraccio sarai tu!» ribadì Len «
Adesso vattene! Non hai più nulla da fare qui!»
Quello un po’ adirato, ma senza nessuna frase con cui ribattere,
si allontanò « Solo perché lo dici tu Len…!
»
La ragazzina guardò con gratitudine la giovane accorsa
in suo aiuto.
« Tutto ok?» domandò Len.
« Si, grazie!»
« A proposito…Io sono Len!»
« Octavie, mi chiamo Octavie!»
Le due scambiarono qualche parola e Len constatò che era
molto piacevole poter parlare con persone non ancora inebriate
dal lusso e dallo sfarzo, persone che ti apprezzano per quello
che sei dentro. Dopo quella chiacchierata si salutarono.
Len tornò a casa molto inquieta, aveva riflettuto molto
sul fatto di essersi circondata di persone superficiali, che si
soffermavano a guardare di chi era figlia o quanti soldi aveva
in tasca, e ad aggravare questo suo stato d’animo si aggiunse
la dichiarazione dei suoi genitori. Cercò di entrare senza
farsi notare, ma tutto fu vano e sua madre la invitò a
sedersi al tavolo con loro. La donna aveva un’aria così
soddisfatta, ma ciò che aveva da dire di sicuro non avrebbe
reso Len altrettanto felice « Tesoro, non immagini la bella
notizia che ho da darti…» la ragazza stava accomodandosi
sulla sedia e teneva lo sguardo basso «…sabato sera
siamo invitati ad un ricevimento indetto dalla compagnia di assicurazioni
di tuo padre!!! Non è magnifico? Ci saranno i più
alti esponenti della società…!»
Len rabbrividì all’idea e si rattristò ancora
di più per il fatto che no sarebbe potuta andare alla festa
organizzata dai suoi amici « Ma sabato ho già un
impegno!»
« Lo annullerai!» intervenne suo padre, lasciandola
spiazzata per un istante.
« No, no e poi no!» Len non voleva saperne.
« Tu verrai a quel ricevimento e senza discutere! Piuttosto
trovati un abito decente! Ma guardati…vai in giro come una
stracciona! Cosa può pensare la gente?»
« Non mi importa quello che può pensare la gente!
Non mi va di essere giudicata per come mi vesto…»
la ragazza si rifugiò in camera sua. Tanto non avrebbe
potuto opporsi, sarebbe dovuta andare a quel maledettissimo ricevimento.
Il giorno seguente c’era un’aria fresca ed il cielo
era come velato da una fine veste di nubi.
Le lezioni erano finite e Octavie si stava allontanando da scuola,
ma sussultò nel vedere un ombra indistinguibile appoggiata
ad un albero. Cautamente si avvicinò e tirò un sospiro
di sollievo quando riconobbe Len in quella sagoma.
La ragazza le si avvicinò « Ti stavo giusto aspettando!»
« Me?»
La giovane annuì « Oggi vengo a casa tua»
« Co…come scusa?»
« Avanti, andiamo! Dov’è che abiti?»
Octavie l’accompagnò sconsolatamente. Si vergognava
molto a mostrare la sua casina semplice, semplice all’amica
« E’ una casa molto piccola…e..e abbiamo un
solo bagno…»
« Guarda che non vengo per prenderti in giro! Avrei bisogno
di una collana! Per una festa…»
« Ma io…»
« Non temere. Me la dovresti solo prestare per una sera…»
« Ma io non ho belle collane…e poi sono quasi tutte
false!»
Ben presto giunsero a casa di Octavie. C’era un’atmosfera
calda e familiare. I genitori dell’amica erano gentili,
semplici. Len rimase scossa, avrebbe voluto una vita così,
lontana da tutto quello sfarzo a cui sentiva di non appartenere.
Octavie e Len si ritirarono nella cameretta della giovane, che
tirò fuori un cofanetto e con voce tremante disse «
Non sono belle come quelle che avrai tu…»
Len senza badare alle considerazioni della ragazza afferrò
una collanina di perle « Vorrei questa! Posso prenderla?»
« Ma quelle non sono vere perle! Prendi piuttosto questa…»
disse afferrando frettolosamente una catenina d’oro con
un ciondolino appeso.
Len la guardò perplessa ed abbozzò un lieve sorriso
« Non è detto che le perle che splendono maggiormente
siano le più preziose…così come le persone
ricche coperte di ori e diamanti siano le migliori…»
Octavie sorrise timidamente e le porse la collana « Allora…te
la regalo!»
La giovane amica infilò la collana in tasca. La giornata
trascorse spensieratamente e Len si sentì stranamente a
sua agio a in quella casa, circondata da persone che le esprimevano
sinceramente il loro affetto e calore.
Len rincasò tardi e scappò in camera, senza rivolgere
uno sguardo ai suoi genitori. In quell’istante invidiava
così tanto Octavie: lei aveva dei genitori che le volevano
veramente bene e che la accettavano per quello che era e non per
quello che appariva agli altri.
La sera del ricevimento arrivò tempestivamente e Len indossò
un abito scuro, che si addiceva alla sua personalità ribelle.
Sua madre non voleva che lo indossasse, ma la giovane non volle
saperne e si presentò alla festa sfoggiando il suo vestitino
nero.
Le persone si complimentavano con i suoi genitori e facevano notare
com’era cresciuta, com’era diventata bella, tutte
cose che probabilmente non pensavano.
Len si sentiva un po’ la principessa di quella noiosissima
festa: adulata da tutti e resa partecipe di ogni discussione.
Già, ma lei desiderava veramente quel trono di false lusinghe
e ammirazione? No, infondo quel regno non era il suo.
Fuori dalle vetrate, nel buio della notte, cadeva una pioggia
fina e silenziosa. Len si appiattì vicino ad una finestra
ad ammirare il cielo bruno, senza stelle.
Fu un istante. Stanca di quella musica, di quelle voci petulanti,
di tutta quella falsità Len si avvicinò di corsa
all’ingresso. Sua madre cercò di fermarla, ma in
quel vano tentativo riuscì solo a rompere la chiusura della
collana, che cadde a terra.
« Era un regalo di Octavie!» nel colmo della furia,
Len scappò fuori. Sua madre cercò di seguirla per
fermarla. La pioggia si era fatta più intensa e fitta,
i fanali delle auto rifulgevano nelle mille gocce e lo stridio
delle ruote era un rumore lontano, che si confondeva con lo scroscio
dell’acqua. Len era già in strada, corse a testa
bassa, seguita dalla madre. Ma la sua fuga fu breve: una luce
abbacinante la avvolse, accecò i suoi occhi. Un rumore
fortissimo. Poi solo il rumore della pioggia e le grida di una
madre.
Sull’asfalto bagnato era riverso il corpo di Len, travolta
da un auto in corsa. La pozza di sangue andava mano a mano allargandosi
e confondendosi con il minimo strato d’acqua che ricopriva
la strada.
Passarono diversi giorni e a Octavie venne restituita
la sua collana: se ne occupò la madre di Len personalmente.
Solo in un secondo momento la ragazza riuscì a spiegarsi
le lacrime che rigavano il viso della donna.
Trascorsero diversi giorni e Octavie non volle saperne di uscire
dalla sua stanza. Stava coricata nel suo letto, con il guanciale
bagno di lacrime e gli occhi gonfi e lucidi.
Poi si decise ad uscire: cacciò in tasca la catenella e
acquistò un mazzo di fiori, una composizione molto semplice.
Quel giorno le strade erano semi deserte. Sullo sfondo autunnale
svettava il cielo grigio e le piante spogliate dalla furia del
vento. Quando Octavie giunse a destinazione si accorse di essere
completamente sola. Si guardò intorno prima di chinarsi
e deporre i fiori.
Davanti a lei si stagliava una lapide di marmo rosato, una costruzione
sfarzosa ed imponente che recava il nome di Len. Octavie si sentì
stringere il cuore nel vedere quel masso di pietra lussureggiante.
Len non avrebbe voluto. A Len quello sarebbe piaciuto, quello
non avrebbe mai fatto parte del suo mondo.
Octavie osservò ancora una attimo la tomba: erano state
deposte corone di fiori e composizioni ammirevoli. La ragazza
guardò con vergogna il suo mazzetto di rose bianche e si
sentì sciogliere di fronte a tutta la bellezza di quei
fiori adagiati sulla lapide.
Ma ad un tratto le parve di risentire la voce dell’amica,
ricordò quella frase che le aveva detto giorni prima: “Non
è detto che le perle che splendono maggiormente siano le
più preziose…così come le persone ricche coperte
di ori e diamanti siano le migliori…”
Octavie depose i fiori, poi sfilò la catenina dalla tasca.
Le lacrime le rigavano le guance arrossate e la voce strozzata
le uscì come un sibilo quasi incomprensibile, mentre posava
la collana di perle sulla lapide «Ti avevo detto che era
un regalo, Len»
Vergassola Jenny
